SOGNANDO AQUILEIA

SOGNANDO AQUILEIA

DI DARIO STASI

Reportage di una città scomparsa

Nella mia carta d’identità c’è scritto “nato ad Aquileia”. In  realtà sono nato a Fiumicello, al tempo della seconda guerra  mondiale, quando questo paese era ancora unito al comune  di Aquileia. L’infanzia e l’adolescenza le ho quindi vissute  a Fiumicello, prima di trasferirmi con la famiglia a Gorizia.  In questo lungo reportage giornalistico su Aquileia sento il  bisogno di raccontare anche alcune esperienze personali  legate alla presenza di questa vicina fonte di storia e di  cultura, in particolare della cultura e della lingua friulane che  ho respirato fin dalla nascita in quei paesi della Bassa.

Il gioco dell’archeologo 

La vita in campagna è stata per me ricca di esperienze: nel  contatto diretto con la natura, nelle scorribande nei campi e  nelle strade polverose, nei cortili delle case contadine. Nel  centro del paese, nella piazza di San Valentino, c’era la chie 

sa col suo campanile. Ma il grande campanile di Aquileia dominava la campagna con la sua mole possente, appena fuori  dell’abitato. Sentivo la presenza vicina di Aquileia perché la  sua grandezza in epoca romana mi veniva insegnata a scuola  da un maestro appassionato e orgoglioso di vivere in una terra di antiche origini,  ma anche perché in paese si vociferava  spesso di ritrovamenti nei campi di gioielli antichi, di ambre preziose o di pietre  squadrate con iscrizioni latine. Uno dei  giochi preferiti di noi bambini era quello  di saltare in groppa a un grande leone di  pietra che si trovava nascosto fra la vegetazione del grande e misterioso parco  della villa Rigatti. Oggi quel leone antico,  

di fattura orientaleggiante, insieme a un  suo gemello, si trova ad Aquileia alla base  dell’imponente monumento funerario o  “mausoleo” ricostruito ai bordi della via  

Iulia Augusta nei pressi della spianata del  Foro (in origine si trovava nella campagna  di Fiumicello – al Roncolòn – al bordo di  una strada romana, molto probabilmente  

la via Gemina). In paese abitavo nella via principale, proprio di fronte al piazzale dei  Tigli, dove si trovava la scuola elementare, un dignitoso edificio asburgico demolito negli anni sessanta per far posto al  nuovo municipio, una costruzione decisamente non bella. Quando frequentavo  la quarta elementare presi una decisione:  

in una zona periferica di quel piazzale,  che avevo in precedenza individuato e valutato (non ricordo con quali motivazioni), avrei iniziato uno  scavo alla ricerca di qualche favoloso tesoro o comunque di  qualche reperto dell’antica Aquileia. Armato dunque di pala  e piccone iniziai entusiasta il nuovo gioco-lavoro. Lo scavo,  con le pause opportune, andò avanti per alcuni giorni mentre  diversi bambini e qualche adulto venivano a curiosare e a far  domande. Ma di cose antiche non se ne vedevano. Quando  ormai cominciavo a stancarmi, un giorno, dopo aver smosso il terreno al fondo del buco ormai profondo, ecco apparire qualcosa di luccicante. Grande sorpresa e grande gioia:  mi ritrovai fra le mani una collanina di pietre colorate. Avevo  trovato un tesoro antico! Anche due o tre bambini che era no presenti e che ogni tanto mi avevano aiutato gridarono di  gioia. Dopo un po’ si avvicinò anche un adulto, un ragazzone  di più di vent’anni che era già venuto a vedere lo scavo. Era  “Nelo Barbìr”, Nello Barbiere (aveva la bottega da barbiere  in piazza ed era noto per essere un buontempone: ricordo  che girava per il paese con un lungo serpente nero attorno  al collo, un biacco, “garbòn” in friulano). Anche lui partecipò  alla nostra gioia. Poi però cominciò a sghignazzare. Finché ci  rivelò che era stato lui, la sera prima, a mettere la collanina  nel buco. E giù a ridere. Sulle prime ci rimasi un po’ male, ma  imparai presto a fare buon viso a cattivo gioco. Poi venne il  tempo delle medie e mio padre decise di mandarmi a Grado,  che era la scuola media più vicina. Per tre anni di seguito ogni giorno ho fatto su e giù con la corriera della Ribi, pas sando ovviamente per Aquileia. Ero molto curioso di vedere  le rovine della città romana e le prime settimane in corriera le  ho passate incollato ai finestrini per scoprire i resti o i tesori  di cui mi aveva tanto parlato il maestro alle elementari. Ma  anche se passavo sia per Monastero che lungo la via centra le di Aquileia, oltre al campanile e alla basilica vedevo molto  poco di interessante: qualche scavo e qualche rudere. Solo  alcuni anni dopo (andando ai bagni a Belvedere) vidi il foro  con le colonne ricostruite, perché nel frattempo erano state  abbattute le case che ne impedivano la vista dalla strada. Vidi  anche il grande monumento funerario o Mausoleo ricostruito  in quegli anni. Per lunghi anni comunque Aquileia non mi at tirava. Ne sentivo parlare, leggevo di nuovi scavi, di qualche  scoperta; quando frequentavo le superiori ho fatto anche una  gita scolastica ma senza troppi entusiasmi.  

San Marco a Belvedere

Il coinvolgimento personale, la ripresa di interesse per  Aquileia arriverà molto tardi. E c’è un giorno preciso in  cui tutto ha avuto inizio, una decina di anni fa. Una gita,  un luogo che non conoscevo, un’immediata fascinazione:  è la chiesetta di San Marco a Belvedere di Aquileia. È  raggiungibile percorrendo la strada alberata che porta a  Grado; prima di Belvedere, quando sulla destra appare un  cartello stradale con l’indicazione “San Marco” si svolta,  si lasciano sulla destra i cinque camini e le cento finestre  vuote della grande casa colonica Colloreda, si percorrono  poco meno di 2 km di strada sterrata, tra lepri che  fuggono e fagiani che prendono il volo e in fondo appare  un gruppo di pini marittimi. Prima i pini dunque, poi su  un’altura si intravede il retro di una piccola chiesa; il retro  perché la chiesa guarda verso il mare, verso la laguna, lì a  pochi metri. Dunque San Marco approdò qui proveniente  da Alessandria d’Egitto, e da qui iniziò la sua missione  evangelizzatrice nell’Alto Adriatico, secondo la leggenda  (come viene sottolineato nella tabella illustrativa accanto alla chiesa). La chiesa attuale risale al Settecento ma è stata costruita al posto di un’altra preesistente, sempre in  ricordo dell’approdo di San Marco. È una storia antica, ma  la chiesa (la chiesa ufficiale) non crede allo sbarco qui di  San Marco e, come sta scritto nella tabella, la dedica della  chiesa all’evangelista è solo tradizione. Eppure… eppure  questo luogo è magico: i pochi pini stanno lì a testimoniare  la pineta litoranea esistente lungo la costa adriatica fino a  Ravenna; la montagnola su cui sorge la chiesa è ciò che  resta delle dune sabbiose che caratterizzavano in antico  questi luoghi. Tutto oggi è diverso, cambiato rispetto a  duemila anni orsono; questo è un posto isolato, dove  gli alberi, il mare, la campagna silenziosa invitano alla  contemplazione, al raccoglimento, a una full immersion in  un paesaggio suggestivo dominato, poco lontano, dalla  presenza sull’orizzonte del campanile di Aquileia. E là, oltre  il mare, Alessandria, l’Egitto, il Nilo, le piramidi, il deserto.  Ero felice di aver scoperto quella chiesetta, per più ragioni. 

Prima fra tutte il ricordo di Alessandria, una città che ho conosciuto bene. 

Il viaggio di una vita

Nel 1980 ho fatto un viaggio nel vicino oriente, durato quasi  due mesi (tutte le vacanze dell’insegnante di allora), il mio  viaggio più importante, un viaggio avventuroso, segno dei  tempi ma anche di un desiderio personale di conoscere quei  luoghi mitici nei quali ha avuto inizio la storia dell’umanità.  Perciò lo racconto dall’inizio alla fine, seppure in modo succinto, perché avevo come obiettivo l’Egitto delle piramidi, del  Cairo, di Alessandria. Alla partenza con la mia vecchia Fiat  1500 mi son detto: vediamo, se arrivo a Lubiana attraverso il  passo di Piro (quella strada allora era sterrata) vuol dire che la  macchina va, e allora proseguo fino alle piramidi. Detto fatto,  attraverso Jugoslavia e Bulgaria con fermate anche lunghe.  Poi la Tracia, Istanbul e l’Anatolia dall’Egeo alla Cappadocia  fino ad Antakya (l’antica Antiochia). Poi passo il confine con  la Siria, arrivo ad Aleppo, Hama, Homs, ma realizzo che dalla Siria non si può entrare in Israele; mi fermo a Latakya (Laodicea) città sul mare con un porto importante. Faccio amicizia  con un armeno che “traffica” nella zona del porto e mi riferisce, tra l’altro, che due giorni dopo sarebbe arrivata qui da  Odessa una nave sovietica diretta ad Alessandria d’Egitto. Il  giorno della possibile partenza esco dal mio albergo e trovo sette o otto arabi che vogliono comprare la mia automobi le. Mi offrono una cifra molto allettante corrispondente a 4  milioni e mezzo di lire, sull’unghia, per una macchina che in  Italia ne valeva meno di un milione. Ma non posso, purtrop po, devo andare in porto con l’auto e, se posso, portarla con  me ad Alessandria. Arriva la motonave sovietica, si chiama  “Baskiria” (una repubblica autonoma dell’URSS sopra gli  Urali). L’armeno conclude un accordo con i marinai per un  biglietto, auto compresa: il prezzo è buono, cabina interna,  mensa con l’equipaggio, il giorno dopo sarò ad Alessandria.  La macchina viene imbragata con corde e issata sul ponte  con una gru. Poi si parte. Ricordo la cena in mensa a base di  pesce affumicato con un simpatico ufficiale russo (maglietta  a righe come quella dei marinai della corazzata Potëmkin) e i  passeggeri arabi tutta la notte a parlare fra di loro (non sotto voce) e ad ascoltare musica dalle loro radioline. Prima di fer marci al porto di Alessandria, ancora al largo, vedo dall’oblò  un gran numero di barche avvicinarsi alla nave, da cui ven gono gettati in mare pacchi che in qualche modo restano a  galla e sono poi recuperati dagli uomini delle barche accorse,  mentre casse più pesanti vengono calate direttamente su im barcazioni più grandi. È evidente il gigantesco contrabbando,  tollerato da tutti, sicuramente anche di armi. Poi tocca a noi  sbarcare. E cominciano i guai: l’automobile non ha una certa  carta ritenuta molto importante al controllo dei documenti per  cui mi viene subito sequestrata. Che fare? Resto con zaino  e due grandi sacchi pieni di ciò che tenevo in auto. Mi viene  un’idea: prendo un taxi e mi faccio portare al consolato d’Ita lia dove vorrei avere spiegazioni e aiuto. Trovo chi mi ascolta  e mi fa conoscere il console. Mi vien detto che riavrò la mac china al momento di lasciare l’Egitto. Il console mi invita nel  suo appartamento e mi offre qualcosa di alcolico (uno Strega)  dopo un mese di astinenza forzata (per la non reperibilità di  alcol in quei paesi islamici). Parliamo a lungo di Alessandria  e scopro con piacere che il console è un appassionato co noscitore della storia di questa metropoli dell’antichità patria  dell’ellenismo, del primo cristianesimo, di copti, greci, ebrei,  egizi, romani, degli esseni, dei terapeuti, degli gnostici, dei  neoplatonici, con la sua grande biblioteca, la più famosa  dell’antichità, con il suo faro alto più di 130 metri, che era una  delle sette meraviglie del mondo conosciuto. E altro ancora,  e mi consiglia cosa andare a vedere. Così, dopo le visite al  Cairo (in autobus), al Nilo, alle piramidi, al deserto, mi sono  fermato ad Alessandria per una settimana, ospite del gentile  diplomatico, che mi ha invitato a rimanere (gratis) alloggiato  alla meglio in uno scantinato del consolato. Poi, per farla bre ve, la difficoltosissima restituzione della macchina (con l’aiuto  del console) e il ritorno su un traghetto della società “Italia”  diretto a Venezia (con comandante triestino). Per me però era  obbligatorio scendere ad Atene (Pireo) e proseguire in macchina attraverso Grecia e Jugoslavia perché ero rimasto con  pochissimo denaro. Fine. Ma qui ho raccontato solo l’essenziale perché quel viaggio è stato davvero indimenticabile. 

Comincia la ricerca…

L’approdo di San Marco, fondatore del cristianesimo alessandrino, in missione evangelizzatrice ad Aquileia, sarebbe  dunque stato uno dei primi collegamenti fra le due metropoli del Mediterraneo. È assodato comunque che otto secoli dopo, sempre ad Alessandria, il corpo del santo verrà  trafugato da marinai veneti e portato a Venezia, che nell’Alto  Adriatico aveva ormai preso il posto di Aquileia, e tumulato in seguito nella nuova basilica che gli verrà dedicata. Dopo  quella prima gita sono ritornato più volte alla chiesetta di San  Marco. Ma da allora ho iniziato anche una serie di esplora zioni di Aquileia, approfittando di ogni giorno o di ogni mezza  giornata disponibile per partecipare a conferenze o visite gui date organizzate a scavi archeologici, alla Basilica o al mu seo, o semplicemente portandomi la bicicletta in automobile  e utilizzandola poi in piacevoli e istruttivi giri in paese o nei  dintorni. Ho anche raccontato all’amico Paolo Viola del mio  “innamoramento” per quel luogo in cui approdò San Marco,  che lui tra l’altro non conosceva. Però Paolo, appassionato di  Aquileia antica, sapeva molte cose su Aquileia e Alessandria  e sullo sviluppo degli studi sull’argomento. Un giorno mi ha  anche invitato a casa sua per conoscere il professor Renato  Jacumin, che era suo ospite. Col professore ci diamo un ap puntamento per un’intervista. Jacumin è autore di varie pub blicazioni sui mosaici dell’aula nord della basilica di Aquileia  e nell’occasione sono venuto a sapere dell’ipotesi “gnostica” formulata dallo stesso Jacumin e degli studi di Pressacco,  Biasutti e altri sulla presunta origine alessandrina del cristia nesimo aquileiese. Mi rendo conto che questo argomento  può non suscitare grandi curiosità, specie in chi, come chi  scrive, non coltiva con particolare interesse studi o ricerche  di carattere teologico. Ma la notevole mole di indagini svolte  da questi studiosi su singoli aspetti della religiosità popolare  in Friuli, i numerosi e affascinanti collegamenti assolutamen te inediti con la metropoli egiziana dell’antichità, gli accosta menti linguistici friulano/latino/greco e altre lingue, conferi scono a queste ricerche uno straordinario motivo di interesse  per la storia della nostra città romana e del Friuli… 

Anche sul campo 

Il turista con cui ho parlato di Aquileia era friulano, un profes sore di scuola media di Spilimbergo. Ci siamo incontrati per caso alla bancarella delle angurie. Entrambi avevamo finito  un giro nella città romana fra scavi e monumenti. Entrambi  prima di ritornare a casa avevamo bisogno di una pausa di  riflessione, e di dissetarci un po’. Sulle prime ci siamo scam biati alcune impressioni sui vari siti visitati ma dopo un po’,  complice il rosso frutto dell’estate, salta fuori il rospo. Che,  per entrambi, è un vago senso di insoddisfazione per ciò che  abbiamo visto, per come Aquileia si presenta al visitatore. E  di questo parliamo, fra turisti, cercando di capire il perché  di questo nostro stato d’animo. Getto il primo sasso: “Sulla  stampa si dice che Aquileia sarebbe ancora sotto terra, tutta  da scoprire, come una nuova Pompei. Forse entrambi abbia mo constatato che dell’antica Aquileia resta invece poco da  vedere”. Ribatte subito l’insegnante: “Questo è un problema  non da poco che, credo, tutti i turisti si pongano. Infatti, se  si escludono le rovine del porto fluviale o ciò che è conser vato nei musei, rimane qualche lacerto di strada romana, i  pavimenti e i muri di antiche abitazioni o qualche colonna spezzata rimessa in piedi. Ma dove sono le mura possenti  che avevano resistito ad assedi prolungati o gli edifici che  avevano ospitato imperatori e generali di Roma? Non si ve dono. Perfino il fiume che circondava la città non può essere  certamente quel misero corso d’acqua che oggi costeggia  la cosiddetta “Via Sacra””. Anch’io mi ero posto le stesse  domande. Ma di fronte alle certezze del mio interlocutore,  rimango pensoso. E cercando un dialogo gli ricordo Attila,  che Aquileia l’ha distrutta, rasa al suolo… “Attila non basta a  spiegare – rimarca l’insegnante – Aquileia non muore con Attila, muore dopo, lentamente… lo ho visitato Cartagine, anche  Troia, famose città distrutte molto tempo prima di Aquileia,  eppure là si vedono ancora mura e resti archeologici di rilievo  (e comunque il fascino di questi nomi è già un’attrazione).  La verità è che Aquileia è scomparsa, sparita. Se non fosse  per la basilica e per il campanile, che però sono medievali, della città romana resta ben poco. Perché? Perché oggi  siamo qui, in un piccolo paese di campagna, mentre l’antica  Aquileia non si vede? E pensare che in età augustea era una  metropoli con più di 200.000 abitanti… Questo è il mistero di  Aquileia. Questo andrebbe spiegato alla gente che la visita,  ai turisti”. Poi c’è la storia di Aquileia, una storia complessa,  e anche su questo concordiamo. Infatti c’è la città romana,  quella cristiana, quella medievale: un’altra complicazione per il turista, che di solito pensa semplicemente di trovarsi  di fronte alle rovine di un’antica città romana, per grandezza  la quarta in Italia e la nona in tutto l’impero, come dicono  guide e dépliant. Invece è difficile cogliere una storia unitaria  di Aquileia, mettere insieme la basilica con i suoi mosaici, gli  scavi, i reperti conservati al museo archeologico o in quello  paleocristiano e le diverse informazioni che libri, documenta ri, giornali e internet ti sciorinano sul tema. E poi succede anche che il visitatore non trovi nel suo giro di visite spiegazioni  sufficienti, adeguate. Ma nel mio interlocutore percepisco lo  stesso ostinato interesse, la stessa fascinazione che provo  io stesso per Aquileia. In piccolo, è come mettere insieme le  tessere di un puzzle: quando cominci a intravvedere il tutto, e  vedi che è possibile, allora ti ci metti proprio d’impegno. Solo  che, nel caso di Aquileia, la posta, o la scoperta, è molto più  importante, e più coinvolgente. L’incontro col professore di  Spilimbergo è un episodio di tre o quattro anni fa, che ricordo bene, perché da quel giorno ho messo Aquileia fra le mie  “fisse”, e ho incominciato a documentarmi sull’argomento,  stimolato proprio dal comune sentire con quel turista friulano  e i suoi giudizi tranchant, pur discutibili ma contenenti certe  verità. Così, dopo qualche tempo, ho partecipato a una vi 

sita guidata a scavi e monumenti della durata di un giorno,  organizzata dalla “Fondazione Aquileia”, il nuovo organismo nato alcuni anni fa con il compito di promuovere lo studio, gli  scavi archeologici e la conoscenza di Aquileia. Nel corso di  questa visita mi sono confrontato con altri partecipanti – tutte  persone culturalmente preparate – che mi hanno confermato i  dubbi e le perplessità che avevo riscontrato parlando col professore di Spilimbergo. Tra l’altro il sindaco e presidente della  fondazione professor Scarel aveva introdotto la visita sotto lineando il fatto che “il sito storico e archeologico di Aquileia  non è di facile e immediata comprensione” (come volevasi  dimostrare!). 

La città scomparsa

Nell’anniversario della distruzione di Aquileia da parte de gli Unni di Attila (18 luglio 452 d.C.), la Società friulana di  archeologia ha organizzato un incontro pubblico per ricor dare quell’importante avvenimento storico. Un pubblico  numerosissimo è accorso all’appuntamento, fissato pro prio il 18 luglio scorso di fronte al Museo paleocristiano di Aquileia, frazione di Monastero. Per introdurre l’argo mento il professor Maurizio Buora, autore di diversi studi  su Aquileia, ha voluto condurre i presenti a poche decine  di metri dal museo, oltre il ponte sul piccolo fiume Natissa che attraversa la piazza della frazione, per dare subito  un’idea della situazione e del contesto in cui il re degli Unni  aveva cinto d’assedio la città romana. È stato il momento  più importante di tutta la conferenza, pur interessante e ar ricchita dalla proiezione di significative immagini. Il profes sore infatti ci ha raccontato che in quel luogo, fra il piccolo  fiume e le case lungo la strada a cento metri a nord del ponticello, sono state scoperte le fondamenta delle mura  e della porta settentrionale d’ingresso nella città antica. Si  trattava di una porta di grandi dimensioni situata fra due  torrioni alti circa otto metri, che all’interno disponeva di  ampi locali per la preparazione delle difese e per gli alloggi  dei soldati di guardia. Le fondamenta della porta e delle  mura sono state scoperte in anni recenti mentre si lavora 

va alla realizzazione delle moderne fognature di Aquileia.  Inoltre, nelle immediate vicinanze della porta, sono state  trovate anche numerose punte di freccia, di giavellotto e  altri resti di armi del tempo. Ovviamente i reperti sono stati  prelevati, le fogne realizzate e tutto lo scavo è stato ri 

coperto. Oggi tutt’intorno non si vede niente. Niente che  richiami l’Aquileia antica, la grande porta o le alte mura che  cingevano la città romana. Neanche il corso d’acqua di ri sorgiva che scorre lì accanto e che oggi si chiama Natissa  è lo stesso fiume di allora – chiamato da Plinio il Giovane  “Natiso cum Turro” – che circondava la città e che cen to o duecento metri più a valle era largo quasi cinquanta metri (all’altezza del porto fluviale). Ma cominciamo il nostro viaggio dall’immagine più nota, l’immagine simbolo  di Aquileia: la fotografia, divenuta oggi una diffusa “cartolina”, che rappresenta le colonne del foro sullo sfondo  del grande campanile. È questa un’immagine molto sugge stiva, che corrisponde alla realtà odierna della città e che  mostra subito al turista il duplice volto di Aquileia, quello  delle antichità romane e quello della città patriarcale di mil le anni più tarda. Ma per questo stesso motivo è un’im magine problematica, che andrebbe subito spiegata. Gli  studiosi sono consapevoli di questa sua “problematicità”  e spesso nei loro libri o nelle loro conferenze sui vari temi inerenti ai suoi monumenti, gli scavi, i musei, spesso giu stamente premettono che questa città è di difficile o non  immediata comprensione. Ma la “problematicità” di Aqui leia ha molte altre motivazioni. Ecco, quello che mi accin go a scrivere è il risultato di una ricerca, di una possibile  risposta alle domande che il turista curioso si fa visitando  questa città misteriosa e affascinante.

Non c’è “l’alzato” 

Aquileia dunque è un mistero. Non è come Roma, dove c’è  il Colosseo, le imponenti mura aureliane, il pantheon, le ter me di Caracalla e molti altri resti della più grande metropoli dell’antichità. Non è come Leptis Magna in Libia o Cartagine  in Tunisia, come Efeso in Turchia o Treviri in Germania, tut te città antiche, più o meno grandi, con vestigia importanti,  visibili; edifici, templi, costruzioni risalenti al periodo aureo  dell’impero romano. Aquileia è diversa. La città romana è  letteralmente scomparsa, invisibile al primo sguardo. Oggi il  visitatore fatica a mettersi in sintonia con la città antica, a  individuare i resti romani; non trova in tutta l’area archeolo gica un solo edificio del passato rimasto in piedi. Non c’è  l’”alzato”, come dicono gli archeologi, intendendo con que sto termine i resti di edifici in verticale, mura o colonne. Ciò  che si può vedere di autentico è tutto al livello del suolo, dei  pavimenti o del sottosuolo, come i resti del porto fluviale o i  mosaici paleocristiani della basilica. Con due eccezioni. C’è  da precisare infatti che il visitatore, quando comincia la visita  di Aquileia romana, si imbatte immediatamente in due alzati  evidenti, importanti per l’immagine della città: le colonne del  foro e il grande Mausoleo funerario alto più di 15 metri, nel le vicinanze del foro stesso. Ma entrambi questi alzati sono  stati realizzati, ricostruiti, in tempi recenti. Nel 1936 infatti si  è provveduto alla ricostruzione (anastilosi) di alcune colonne  di marmo bicolore, appena qualche anno dopo che l’archeologo Giovanni Battista Brusin ebbe intrapreso una importante campagna di scavi e individuato il sito del foro di Aqui leia. Nel 1956 altri archeologi fra cui lo stesso Brusin, sulla base di frammenti di un grande monumento funebre ritrovati  a Roncolòn (Fiumicello) non lontano da Aquileia, sul percor so della via Gemina, procedette al restauro dello stesso, alla  sua ricostruzione e collocazione nel luogo in cui si trova oggi.  Entrambi questi interventi hanno suscitato discussioni e pa reri diversi fra gli studiosi, soprattutto quello relativo al mo numento funerario (oggi chiamato Grande Mausoleo) perché  esso è stato sistemato in un luogo diverso da quello in cui è  stato ritrovato (lapidi e monumenti funerari venivano collocati  fuori città, lungo le strade principali). Ecco dunque spiegata  l’eccezione dell’esistenza in Aquileia di questi due noti “alzati”. Stanti così le cose possiamo dunque affermare che fino  a non molti decenni orsono (fino a metà degli anni Trenta del  secolo scorso, come abbiamo visto), al primo sguardo, eccezion fatta per la basilica col suo campanile, dell’antica Aquileia romana non si vedeva proprio nulla. 

La distruzione di Aquileia

 Ovviamente tutti sapevano e sanno della grande Aquileia del  passato, erano ben noti i testi degli antichi scrittori romani,  cristiani e dell’Aquileia dei patriarchi, che parlavano della  grande metropoli dell’antichità con le sue mura possenti più  volte ricostruite, dell’anfiteatro, del circo, del porto fluviale  ricchissimo di traffici, delle sue strade importanti, delle vicende dei primi cristiani della basilica con i suoi magnifici mo saici, fino alla grande realtà feudale del Patriarcato. Ma qui è  lecito porsi una domanda. Come mai una città così grande,  così importante è stata completamente distrutta, letteralmen te rasa al suolo e, soprattutto, perché di essa oggi non rimane  quasi più traccia? A scuola abbiamo imparato che i romani  avevano distrutto l’odiata Cartagine e avevano cosparso di  sale le sue rovine per non farla risorgere mai più; eppure la  città di Annibale è poi stata ricostruita, e le sue rovine sono  ancora oggi visibili e molto eloquenti. Cos’è successo allora  alla nostra Aquileia? 

È tutta colpa di Attila? 

La risposta sembra facile, è la risposta che è sempre stata  data a chi si è fatto e si fa ancora oggi questa domanda: è  stato Attila, il re degli Unni, il più conosciuto, il più feroce fra  tutti i “barbari”. È stato lui a distruggere, a radere al suolo  Aquileia, che da allora non si è più ripresa, non è più risorta.  Dove passava Attila l’erba non ricresceva più. Una risposta  vera, ma solo in parte. È una risposta molto semplice, e anche convincente, tale da escludere subito eventuali distinguo,  eventuali altre cause, che invece sussistono e sono diverse  e tutte rilevanti. Come vedremo. Intanto la distruzione di At tila, pur certa storicamente, non è detto che sia stata di pro porzioni talmente gravi da impedire la successiva rinascita di Aquileia. Gli storici antichi e gli studiosi fino a qualche tempo  fa ipotizzavano che l’assedio di Attila fosse durato circa tre  mesi, dopo i quali si sarebbe verificato il famoso racconto  della cicogna che abbandona coi suoi piccoli le mura della  città assediata e l’interpretazione di Attila che vide in questo  episodio un segnale della debolezza della città, spronando  così i suoi all’assalto e alla sua definitiva conquista. Oggi invece si dice che l’assedio sarebbe durato tre giorni e che  Attila aveva fretta di proseguire per Roma e che, come tutti i  “barbari”, era interessato soprattutto al bottino più che a per der tempo e a demolire edifici e mura cittadini (ma sono state  trovate tracce di incendio risalenti a quel periodo). E comun que la vitalità della Chiesa di Aquileia dopo Attila testimonia  che la vita nella città adriatica era ripresa. 

“Non ricostruitela!” 

Ma vediamo alcuni scritti interessanti di qualche secolo più  tardi, come un poema in versi latini intitolato Versus de de structione Aquilegie numquam restaurande (Versi sulla di struzione di Aquileia che non dovrà più essere ricostruita) at tribuito a Paolino d’Aquileia (che successivamente sarà fatto  santo) e databile dopo 1’800 d.C. al tempo di Carlo Magno,  cioè circa quattro secoli dopo la distruzione di Aquileia da  parte di Attila. Vediamo qui di seguito la traduzione di alcu ni passi: Per piangere, o Aquileia, le tue ceneri non ho la crime bastanti… Una volta eri bella, illustre, rinomata per le  tue ricchezze, splendida di palazzi, famosa per le mura e più  ancora per le innumerevoli folle dei tuoi cittadini. Capitale e metropoli… mentre eri nel pieno rigoglio di tutte queste delizie, poiché ti eri gonfiata di grande superbia hai ammassato,  o infelice, l’ira del Giudice eterno. La collera del cielo mise in  moto una crudele popolazione, che mossasi dall’oriente era destinata a compiere celermente la tua distruzione… Attila ferocissimo, implacabile… con cinquecentomila soldati sprona  all’assalto il suo esercito: con macchine da guerra percuoto no violentemente le mura… espugnano la città, la bruciano  e distruggono radendola al suolo. Eri piena di alte case, di  candidi marmi… ora sei diventata una spelonca per zotici un  tugurio di poveri… Sei venduta per tutte le terre d’intorno…  dalle tombe si gettano via i cadaveri per avere marmo da ven dere. Accanto al lamento (sincero?) per la sorte della città,  in questi versi è evidente il proposito dell’autore di incolpare  Aquileia di superbia, per cui la sua distruzione sarebbe av venuta per volontà di Dio. In realtà questi versi fanno pensa re a un’operazione teologico-politica dettata dalle rivali del tempo, Grado e Venezia, con la finalità di dissuadere Carlo  Magno dall’intento di ricostruire la città, come gli aveva chie sto il patriarca di Aquileia Massenzio. Questo accanimento  “propagandistico” è addirittura sfacciato in un altro poema  simile di autore ignoto, di qualche decennio posteriore, Car men de Aquilegia numquam restauranda (Carme su Aquileia  che mai più dovrà essere riedificata). Qui ad Aquileia vengono  date colpe ancora maggiori; essa avrebbe ammucchiato mali  sopra mali, aggiunto delitti a delitti perché è dura di cuore e  perfetta nel delitto. Così la nascente Venezia è splendida e  gloriosa e supera tutte le nazioni per divina grazia, Aquileia in vece, poiché offese Dio con immani scelleratezze per le quali  meritò di essere distrutta da mani pagane oggi è condannata  a ospitare i serpenti e le rane nelle sue paludi. Come si vede,  qui non siamo in presenza di resoconti di fatti documentati o  storici riguardanti l’assedio di Attila, come quelli dei cronisti  Jordanes e Procopio di Cesarea del VI secolo d.C., qui la  storia diventa volontà di Dio, religione, “strumentalizzazione”  politica, si dice oggi. In questi scritti Attila re degli Unni e la  distruzione di Aquileia sono già leggenda e lo diventeranno  ancor di più successivamente. Qui è solo opportuno aggiun gere che due secoli dopo questi scritti il patriarca Poppone  diede un nuovo impulso alla ricostruzione di Aquileia ristrut turando la basilica e costruendo il grande campanile (1031  d.C.) che ammiriamo ancora oggi. Ma lo stesso Poppone, a causa della suddetta persistente rivalità, si rese responsabile  di più incursioni manu militari nella vicina Grado, depredan dola e distruggendola brutalmente. Ma questi due scritti ci  danno anche altre informazioni e l’occasione di alcuni ne cessari approfondimenti per rispondere alla domanda che ci  siamo posti. 

Le paludi 

Vi si parla infatti delle paludi che nei lunghi anni di abbandono  avevano cominciato ad estendersi intorno ad Aquileia. Una  città costruita notoriamente su un territorio che richiedeva il  mantenimento di un complesso equilibrio idrogeologico fra il  mare (con il movimento delle maree), la laguna e una rete di  

piccoli fiumi di risorgiva e di canali artificiali che caratterizza vano la costa dell’alto Adriatico. Rotto questo equilibrio, an che per l’abbassamento dei terreni (bradisismo) ma soprat tutto a causa di guerre e invasioni, gli abitanti erano fuggiti,  

e per lunghi periodi le campagne non vennero più coltivate;  prevaleva l’abbandono e l’incuria, e i terreni paludosi pren devano il sopravvento mentre si diffondeva la malaria e altre  malattie in un ambiente malsano e invivibile. Solo nel Sette cento si cominciarono a realizzare opere di bonifica (la cosid detta bonifica di Maria Teresa d’Austria). Questa situazione di precarietà si protrasse per molto tempo e, seppure attenuata,  fin quasi agli inizi del Novecento. 

I fiumi 

Un altro aspetto del territorio aquileiese che merita un’attenta  considerazione è quello del cambiamento di corso o di por tata d’acqua dei fiumi, in epoca storica, soprattutto a parti re dal 588 d.C., anno in cui si verificò un’immane catastrofe  con straripamenti e inondazioni, una specie di “diluvio” che  sconvolse la pianura friulana e cambiò il corso dell’Isonzo,  del Natisone, del Torre e interessò anche il Timavo. Infatti  al fenomeno delle risorgive lungo la Bassa pianura friulana  bisogna aggiungere la vicinanza dell’altopiano carsico con le  sue doline e grotte in cui si infiltra l’acqua piovana e scorrono  corsi d’acqua sotterranei, come il Timavo appunto. Rispet to all’epoca imperiale, quella di maggior sviluppo di Aqui leia, oggi la situazione è notevolmente cambiata. Al tempo  avevamo probabilmente il Natiso cum Turro (citato da Plinio  il Giovane), ovvero il Natisone con il Torre che ancora non  confluivano nell’Isonzo ma costituivano insieme l’antico Na tissa, il fiume che al tempo scorreva a oriente sotto le mura  di Aquileia, e sulle cui rive era stato costruito il porto fluviale.  Questo fiume sfociava poi in mare autonomamente. L’Isonzo  aveva probabilmente un’altra foce, più a oriente dell’attuale  e scorreva anche su un altro alveo che costeggiava il Car so (individuato all’altezza di Ronchi, dove sono stati trovati  anche i resti di un ponte). Poiché rilevanti quantità di acqua  dell’Isonzo e del Vipacco s’infiltravano (e s’infiltrano tutt’oggi) lungo il percorso carsico, a sud di Gorizia e a Savogna, è  stato ipotizzato che le foci dell’Isonzo e del Timavo potes sero essere molto vicine o formassero addirittura un’unica  grande foce. Le bocche del Timavo erano più numerose delle  tre odierne (secondo Virgilio erano nove, per Strabone sette,  ancora più numerose per altri scrittori) e l’acqua usciva dalle  rocce abbondante e con gran fragore, tanto che la foce veni va chiamata “madre del mare”. Sulla “tabula Peutingeriana”  si può notare che nei pressi del Timavo c’è anche un lago,  l’antico “Lacus Timavi”. Queste sono tutte ipotesi, tentativi di  immaginare il territorio formulate in base ai documenti e agli  scritti del tempo, in mancanza di fonti certe. 

La laguna 

Come il corso dei fiumi anche la laguna non era la stessa che  vediamo oggi. Molto probabilmente il livello del mare allora  era più basso e di conseguenza era più elevata l’area di terre  emerse. La linea di costa era caratterizzata dalla presenza di  dune sabbiose e da una pineta che da Duino arrivava fino a  Ravenna. Resti di dune e della pineta si trovano ancora oggi a  Morsano di Belvedere intorno alla chiesetta di San Marco, nel  luogo (molto suggestivo) in cui secondo la tradizione popolare sbarcò l’evangelista Marco per diffondere il cristianesimo ad Aquileia. A occidente dell’attuale strada da Belvedere a  Grado, costruita negli anni Trenta del Novecento, sono stati  trovati resti di un’antica strada che quasi certamente collega va Aquileia con la stessa Grado (ne parla anche Paolo Dia cono). Anche l’isola di Barbana in passato era abitata e forse  era il lazzaretto di Aquileia. La costruzione del santuario è  legata al ritrovamento sull’isola di un’immagine della Madon na ritenuta miracolosa, dopo la grande alluvione del 588 d.C.  su ricordata. 

Il lungo saccheggio

“Sei venduta per tutte le terre d’intorno… dalle tombe si  gettano via i cadaveri per avere marmo da vendere”, scrive  nell’800 d.C. Paolino d’Aquileia: è questo in sintesi ciò che è accaduto alla città romana per oltre mille anni, fino quasi ai  nostri giorni. Con la caduta di Aquileia per effetto dell’asse dio di Attila comincia il saccheggio di opere d’arte, oggetti  di valore ma soprattutto pietre lavorate e squadrate, lapidi  e marmi riutilizzati in gran quantità come materiali da co struzione a Venezia, Padova, nelle altre città della costa e  lagunari, compresa Grado. Questa spoliazione sistematica  dell’antica Aquileia è stata oggettivamente incoraggiata dai  poemi su ricordati (“non dovrà più essere ricostruita”) ma lo  stesso patriarca Poppane userà nel 1024 le pietre prelevate  dall’anfiteatro romano (di cui oggi rimane solo qualche trac cia) per costruire il campanile. Si continua così nei secoli suc cessivi: tutti i paesi e le città del circondario riutilizzeranno le  pietre di Aquileia per costruire case e strade; in particolare  per la costruzione nel XVI secolo della fortezza di Palmanova  (chiamata significativamente dai suoi costruttori “Nova Aqui leia”). Ma il visitatore ottocentesco o del primo Novecento  si trovava comunque in presenza di un paese di campagna  della Bassa friulana, come tanti altri. Anche se era noto che  arando i campi i contadini si imbattevano spesso in pietre  antiche. La gente del paese sapeva che dal terreno poteva no affiorare monili, ambre preziose, resti od oggetti antichi di  varia natura. C’era anche chi già nel Settecento ricercava e  collezionava tutto ciò che era possibile avere o comprare in loco. Ma diverse opere d’arte ritrovate andarono disperse in  tutto il mondo, in Inghilterra, in Francia, a Vienna, a Venezia ma anche a Udine e a Trieste. Nella stessa Aquileia nel cor so dell’Ottocento si formarono alcune collezioni importanti.  Finché nel 1882 le autorità austriache (Aquileia faceva par te dell’Impero austroungarico) raccolsero in un museo lapi di, are funerarie, statue, arnesi, gioielli, tutti i resti dell’antica  Aquileia restituiti dalla terra. Nacque il Museo Archeologico,  nella sede in cui si trova tutt’oggi. E cominciarono anche le  esplorazioni sistematiche del territorio, le campagne di scavo  e i controlli sul ritrovamento di antichità. Da allora anno dopo  anno si sono susseguite ad Aquileia grandi scoperte arche ologiche che hanno caratterizzato la prima metà del Nove cento. Ricordiamo le più importanti: nel 1909 i mosaici della  basilica, nel 1934 il porto fluviale e il complesso del foro romano. Fra le due date, come è noto, c’è stata la prima guerra  mondiale, che proprio in questi territori vide le dodici cruente  battaglie dell’Isonzo combattute fra italiani e austriaci. È bene  rammentare che la scoperta dei mosaici della basilica risale  al tempo in cui Aquileia faceva ancora parte dell’Impero austroungarico, mentre il porto fluviale e il foro furono scoperti  dopo la guerra quando Aquileia era già Italia, e precisamente  in pieno ventennio fascista. 

Baruffe aquileiesi

La storica francese Claire Sotinel nell’introduzione al suo im portante libro Identitè civique et cristianisme: Aquilèe du 3° ai  6° siècle (2005) rileva come i conflitti e le vicende di confine  del Novecento fra Italia e Austria e fra Italia e Jugoslavia ab biano influenzato gli studi sulla città romana, a causa del na zionalismo nel primo caso e successivamente per una sorta  di marginalismo localistico (“campanilisme radical”) dovuto  alla vicina presenza della “cortina di ferro”. È un’osservazione  condivisibile; scontata per certi aspetti dei nazionalismi au striaco italiano degli anni anteriori e posteriori alla prima guer ra mondiale; più complessa da definire per quanto concerne  il conflitto fra Italia e Jugoslavia dagli anni della guerra fredda  fino ai giorni nostri. In questo secondo caso forse la storica  francese pensa a diatribe di tipo “campanilistico radicale”  dovute all’isolamento dell’area friulana in cui si trova Aquileia,  divenuta marginale a occidente dopo la seconda guerra mon diale, e la vicina e assai poco permeabile (anche nel campo  degli studi) frontiera col mondo comunista dell’est europeo.  Queste diatribe avrebbero riguardato soprattutto studiosi  friulani o regionali ma anche, in anni più recenti, omologhi  storici sloveni. In particolare la Sotinel, in un modo molto  francese (cioè irritante per taluni, per altri molto autorevole) punta il dito su alcuni studiosi di Aquileia i quali poi a loro  volta rispondono punto per punto con lunghissime recensioni  del suo libro che, peraltro, da tutti è ritenuto molto valido  (“superbo” a detta di alcuni storici inglesi). Non entro nel me rito, anche perché non ne ho le competenze. Mi soffermo sul le polemiche semplicemente per segnalarle, perché le ritengo  utili e vitali, anche considerando come Aquileia continui da  più di cento anni a suscitare discussioni, contrapposizioni,  diverse interpretazioni di questo o quell’aspetto della sua sto ria. Un altro libro della stessa mole di quello della Sotinel, Il  cristianesimo aquileiese prima di Costantino (1999) di Rajko  Bratož, uno degli storici locali presi di mira dalla storica fran cese, è stato tradotto dallo sloveno in italiano da case editrici  locali e così è stata tradotta anche la lunghissima recensione  di Bratož del libro della Sotinel. Sorprendentemente invece il  suddetto libro della storica francese dopo dieci anni dalla sua  pubblicazione non è ancora stato tradotto in italiano. Eppure  è un’opera innovativa e di grande respiro (l’ho letto in france se, con una certa fatica) che potrebbe interessare tutti, sem plici lettori, appassionati e storici, anche per il fatto di rappre sentare un punto di vista diverso e “fuori dal coro”. Ma forse  è proprio per questo che viene snobbato. Sempre nel merito  dei rapporti fra studiosi al tempo della guerra fredda il giova ne storico goriziano Riccardo Cecovini, autore di uno studio  sulla strada romana Aquileia-Emona (via Gemina) ha recente mente affermato: “Il tema che ho trattato è ancora poco co nosciuto soprattutto a causa del confine e delle contrapposi zioni politiche e ideologiche che hanno fatto tabula rasa della  storia antica. A livello di studi storici c’è molto materiale in  Slovenia, poco in Italia, e soprattutto manca uno studio com plessivo di questa importante strada, uno sguardo a volo  d’uccello. Bisogna dire che accanto ai nazionalismi del Novecento e al confine, conta anche la difficoltà delle traduzioni.  Conoscendo anche un po’ di sloveno io cerco di fare questo  lavoro. Almeno ho iniziato a farlo”. Poi mi sono imbattuto in un libro davvero insolito, in cui Raffaella Paluzzano intervista  Gilberto Pressacco dal titolo “Viaggio nella notte della chiesa  di Aquileia” (Gaspari editore, 1998), e che ha per tema gli  studi di questo sacerdote friulano riguardanti le origini del cri stianesimo aquileiese. Sulle prime un tema del genere può  apparire ostico o troppo specialistico ma questa lettura sin  dall’inizio si rivela appassionante anche per chi non è addetto  ai lavori, come chi scrive per esempio. Innanzitutto perché  Pressacco accompagna il lettore nelle sue sorprendenti inda gini sul territorio friulano-aquileiese, ricchissime di scoperte,  di rimandi culturali e di collegamenti col mondo antico e at tuale del vicino oriente mediterraneo (ma con incursioni fino  in Etiopia). E poi perché in questo libro vengono ribaltate vecchie concezioni e aperti nuovi orizzonti di ricerca su Aquileia  cristiana e sull’identità friulana. Successivamente ho conti nuato le mie ricerche consultando attentamente l’opera mo numentale di Gilberto Pressacco edita di recente in più volu mi intitolata “L’arc di San Mare” (in lingua friulana l’are di San  Mare è l’arcobaleno), Forum 2013, Editrice Universitaria Udi nese. Non solo per me, che non sono religioso, è motivo di  interesse considerare questa schiera di studiosi (e di sacer doti) che per amore del sapere ha sfidato e continua sfidare  l’establishment cattolico il quale, per parte sua, non ha man cato di ostacolarli (fin che erano in vita). Ed è anche molto  interessante fare un confronto fra chi ritiene che la ricerca  storica sia possibile solo in presenza di “prove” certe (docu menti, opere, dati, ecc.), inconfutabili, e chi invece, come i  nostri, costruisce scenari possibili in base a indizi, “spie”, as sociazioni di idee o altri elementi che vengono fatti interagire  fra di loro. Un po’ come succede mettendo insieme le varie  tessere di un puzzle. Faccio solo un’osservazione in proposi to: sicuramente la storia recente così come la conosciamo,  documentata da fotografie, filmati, giornali, tv e internet rien tra appieno nella prima ipotesi, mentre la storia antica abbisogna di maggiori approfondimenti, uso di associazioni, indi zi, ecc. Sulle origini del cristianesimo ad Aquileia non esistono  documenti scritti ai quali attingere informazioni attendibili, per cui la chiesa attuale ha ritenuto e ritiene tuttora di uniformar ne la nascita nell’ambito e secondo i crismi del cristianesimo  sviluppatosi da Roma soprattutto con l’opera evangelizzatri ce di San Paolo. In anni recenti invece quel gruppo di studio si ha ipotizzato un’origine del cristianesimo aquileiese prove niente da Alessandria d’Egitto, città con la quale Aquileia  intratteneva intensi traffici marittimi (commerciali, culturali; il  viaggio tra i due porti aveva una durata di una dozzina di gior ni) e da cui si diffonde invece la missione evangelizzatrice di  San Pietro insieme a San Marco. Nella metropoli egiziana,  patria dell’ellenismo, anche un tipo di cristianesimo legato  all’ebraismo aveva messo radici profonde dando vita a dibat titi dottrinari, sette e scismi fra studiosi e teologi come Orige ne o Filone d’Alessandria e, ma più tardi, alla vicenda tragica della scienziata “pagana” Ipazia (nota oggi anche per un re cente film di successo su di lei). Il primo studioso a formulare  una simile ipotesi negli anni Sessanta del secolo scorso è  stato mons. Guglielmo Biasutti, a lungo direttore dell’Archivio  arcivescovile di Udine. È stato lui a ricevere l’allora giovane  ricercatore torinese Carlo Ginsburg che in quell’archivio  avrebbe poi trovato nelle migliaia di fascicoli dell’Inquisizione  friulana là conservati le storie dei Benandanti, gli stregoni  “buoni” che di notte combattevano contro quelli “cattivi” per  difendere i raccolti, e quella del mugnaio Menocchio raccon tata nel libro “Il formaggio e i vermi”, opere entrambe tradotte  e conosciute in tutto il mondo. Nelle sue ricerche sul territorio  friulano Biasutti ha evidenziato l’esistenza di una ventina di  chiesette o di ancone votive dedicate a Sante Sabide, una  santa nota solo in Friuli (Santa Sabata, un femminile di saba to). Secondo Biasutti questa Santa friulana rappresenterebbe  ciò che rimane di un’epoca lontana in cui nelle campagne  aquileiesi il giorno di festa non era la domenica ma il sabato,  secondo la tradizione giudeo-cristiana alessandrina, una tra dizione documentata e in uso in Friuli fino al XVII secolo. Que sta, insieme ad altre interessanti riflessioni, è solo una delle  numerose tracce che il sacerdote archivista mette in eviden za nei suoi studi e nelle sue poco diffuse pubblicazioni. Egli  giunge a ipotizzare anche un trasferimento nell’Alto Adriatico, in Friuli, di adepti di una qualche comunità alessandrina alla  ricerca di una terra più accogliente, di un riparo per fuggire  dai turbolenti e sanguinosi contrasti dottrinali all’ordine del  giorno nella metropoli egiziana. Successivamente sulla base  degli “input” di Biasutti, il musicologo don Gilberto Pressacco (ma anche storico, teologo, antropologo, linguista, come  vedremo) ha proseguito le ricerche su questo tema racco gliendo un’impressionante mole di indizi, associazioni, colle gamenti fra la vita religiosa ad Alessandria e quella che si  sarebbe poi svolta ad Aquileia e più in genere nelle campa gne friulane. Ma vediamo come inizia questa entusiasmante  ricerca che per i suoi aspetti particolari merita di essere rac contata così come si desume dai libri e dalle pubblicazioni di  questo sacerdote. Approfondendo alcune sue ricerche in campo musicologico in una biblioteca vaticana a Roma,  Pressacco si imbatte in un vecchio libro di uno specialista in  materia nel quale legge tra l’altro una nota che lo fa riflettere  molto, e cioè che la prima notizia riguardo al cosiddetto “canto in due cori” si trova nell’opera “De vita contemplativa” del  filosofo ebreo Filone d’Alessandria del 40 d.C. Quella nota  riporta alla mente del sacerdote friulano un’altra informazione  simile, che aveva attinto anni prima consultando un fascicolo  processuale del Tribunale dell’Inquisizione di Aquileia nell’Archivio arcivescovile di Udine (un’importantissima fonte di sto ria friulana, come è ormai evidente). Si trattava di una lettera  di denuncia all’inquisitore del 1624 scritta da un prete di Pa lazzolo dello Stella il quale si lamentava che un gruppo di uomini e donne del suo paese, secondo una radicata super stizione, la notte del sabato di Pentecoste andava in proces sione in paese e nella campagna circostante cantando “in  due cori” una canzone che si chiamava Schiarazzola Maraz zola, sotto la guida concitata di una donna di nome Maria  Alessandrina (nome quanto mai significativo). Un canto “a  due cori”, un botta e risposta, da parte di due gruppi che  cantano, ballano e dialogano simulando una battaglia nottur na con rami e bacchette di legno ingaggiata fra spiriti buoni  (benendanti) e cattivi (streghe e demoni) per salvare i raccolti.  È proprio lo stesso rito descritto dallo storico Carlo Ginsburg  nel suo famoso libro “I Benandanti”. Pressacco individua poi  l’origine delle parole che formano il titolo di quella canzone: carax, che significa canna in greco (ma anche scjaraz, in friu lano vuol dire canna) e marath, in greco finocchio (la famosa  piana di Maratona in greco sta per Valle dei finocchi). Canna  e finocchio quindi, le “armi” con cui si combattono stregoni  buoni e cattivi. Ma ritorniamo al “De vita contemplativa” di  Filone d’Alessandria. In questo libro è descritta la vita asceti ca della comunità religiosa giudeo-cristiana dei Terapeuti,  che aveva la sua dimora nei dintorni di Alessandria (preferiva no la campagna alle città, considerate corrotte). Questa co munità è nominata anche da altri storici e uno di essi, Eusebio  di Cesarea, menziona i Terapeuti come gruppo “cripto-cri stiano” fondato da San Marco. Fra la preghiera, la contem plazione e le altre attività, essi usavano riunirsi il sabato, can tando e ballando “in due cori”, riti che avevano il loro apice la  notte di Pentecoste. Come avveniva in quelle processioni a  Palazzolo dello Stella. È possibile che fra le due esperienze,  anche a distanza di tanto tempo “sia ravvisabile un comune  substrato religioso e culturale tra tradizioni, spesso sommer se, attestate in alcune regioni del Mediterraneo”, dice Pres sacco, e che l’antica leggenda dell’arrivo ad Aquileia di San  Marco trovi riscontri in moltissimi dati e situazioni tutt’altro  che irrilevanti. Questa dunque la tesi di Pressacco: l’eredità  della missione evangelizzatrice marciana del cristianesimo  aquileiese si è conservata nei secoli nella campagna friulana  dove ha lasciato segni profondi e persistenti nella memoria  popolare anche dopo l’assimilazione della chiesa di Aquileia  a quella di Roma. Quindi la ricerca di Pressacco si concentra  sulle tracce di elementi riscontrabili sia nella comunità di Te rapeuti di Alessandria sia in ciò che nel territorio friulano  avrebbe giustificato un loro trasferimento nell’area alto adria tica. Secondo la descrizione di Filone i Terapeuti prediligeva no insediamenti ricchi di acque dolci, anche per i loro riti,  come nella zona situata accanto a un lago nelle vicinanze di  Alessandria, nella quale avevano iniziato la loro esperienza  comunitaria. La Bassa friulana con la caratteristica presenza  delle numerosissime acque di risorgiva era per loro un sito  

ideale. Fra l’altro, sulle rive dei corsi d’acqua di risorgiva, cre sce la pianta dell’issopo, usata dai Terapeuti, la canna e il fi nocchio come abbiamo visto, ma anche piccoli fiori rosa  chiamati in friulano con il significativo nome di marculine.  Come si può notare, Pressacco rivolge le sue ricerche all’ori gine dei nomi propri, dei nomi dei luoghi, delle manifestazioni  della cultura popolare friulana e in particolare del cristianesi mo primitivo conservatosi nelle campagne. Come la diffusio ne della Sante Sabide, come sopra evidenziato. E così la pa rola friulana macor, che sta per l’italiano rozzo o rustico,  deriva da Ermacora, primo vescovo di Aquileia designato da  San Marco, ma anche da maqor, parola ebraica che vuol dire  fonte, sorgente, con preciso riferimento alla purificazione (an che in senso terapeutico) per mezzo dell’acqua che sgorga  limpida dalla terra. Si arriva quindi alla formulazione del concetto di “rusticitas” (rusticità) quale aspetto identitario di un  cristianesimo popolare conservatosi nelle campagne in op posizione a quello ufficiale sviluppatosi nelle città (Aquileia,  Cividale, Concordia, ecc.). Il classico contrasto fra città e  campagna. Un’altra interessante riflessione di Pressacco ri guarda il termine borboròs che in greco significa inferno o  luogo pauroso e in friulano ha il medesimo significato (usato  un tempo come spauracchio per i bimbi). Anche Socrate  quando parla del suo destino dopo la morte accenna ai Cam pi Elisi da un lato e al borboròs dall’altro. È lo stesso motivo  per cui si può spiegare il bellissimo mosaico in tre scene de dicato al profeta Giona nella basilica di Aquileia e la grande  rilevanza riservata dai primi cristiani aquileiesi a questa piuttosto singolare storia biblica. La ricordo sinteticamente qui di  seguito. Dio scelse come suo profeta un uomo chiamato Gio na. Un giorno Dio disse a Giona di andare a Ninive per avver tire gli abitanti che dovevano smettere di comportarsi male.  Ma Giona ebbe paura di recarsi in quella città straniera, fuggì  e si imbarcò su una nave. Quando la nave fu in mare, si sca tenò una tempesta. Giona capì che la causa della tempesta  era proprio lui e chiese ai marinai di gettarlo in mare per salvare la nave. I marinai al colmo della paura eseguirono la sua  richiesta e di colpo la tempesta si placò. In mare Giona venne  inghiottito da un grosso pesce (o una balena o un mostro  marino, come nel caso del mosaico aquileiese) e rimase nel  suo ventre per tre giorni e tre notti, poi venne rigettato vivo  sulla spiaggia. Così poté finalmente riposare sotto una pianta  cucurbitacea (una zucca o un cetriolo). La storia di Giona ri chiama la passione di Gesù e la sua discesa negli inferi, nel  borboròs. Ma il senso delle vicissitudini del profeta Giona sa rebbe la “conquista” del riposo, ovvero la salvezza “universa le” (secondo Origene), degli uomini di tutte le nazioni, non  solo degli ebrei ma anche dei “peccatori” abitanti di Ninive,  tutti degni del riposo eterno. L’“arc di San Marc”, nome friulano dell’arcobaleno, è il segnale che Noè vede comparire  all’orizzonte alla fine del diluvio universale, e che rappresenta  e indica quella agognata redenzione. Tutte interessanti inter pretazioni suffragate da tanti piccoli e grandi indizi messi a  confronto, di cui qui ho riportato solo alcuni aspetti, che dan no appena un’idea del vasto affresco storico e antropologico  dell’identità e della cultura friulane tracciato da Gilberto Pres sacco. Ma un altro grande passo avanti nella direzione indi cata da Biasutti e Pressacco viene compiuto alle soglie del  2000 da uno studioso di Aquileia, il professor Remo Cacitti… 

E la ricerca continua…