SOGNANDO AQUILEIA
DI DARIO STASI
Reportage di una città scomparsa
Nella mia carta d’identità c’è scritto “nato ad Aquileia”. In realtà sono nato a Fiumicello, al tempo della seconda guerra mondiale, quando questo paese era ancora unito al comune di Aquileia. L’infanzia e l’adolescenza le ho quindi vissute a Fiumicello, prima di trasferirmi con la famiglia a Gorizia. In questo lungo reportage giornalistico su Aquileia sento il bisogno di raccontare anche alcune esperienze personali legate alla presenza di questa vicina fonte di storia e di cultura, in particolare della cultura e della lingua friulane che ho respirato fin dalla nascita in quei paesi della Bassa.
Il gioco dell’archeologo
La vita in campagna è stata per me ricca di esperienze: nel contatto diretto con la natura, nelle scorribande nei campi e nelle strade polverose, nei cortili delle case contadine. Nel centro del paese, nella piazza di San Valentino, c’era la chie
sa col suo campanile. Ma il grande campanile di Aquileia dominava la campagna con la sua mole possente, appena fuori dell’abitato. Sentivo la presenza vicina di Aquileia perché la sua grandezza in epoca romana mi veniva insegnata a scuola da un maestro appassionato e orgoglioso di vivere in una terra di antiche origini, ma anche perché in paese si vociferava spesso di ritrovamenti nei campi di gioielli antichi, di ambre preziose o di pietre squadrate con iscrizioni latine. Uno dei giochi preferiti di noi bambini era quello di saltare in groppa a un grande leone di pietra che si trovava nascosto fra la vegetazione del grande e misterioso parco della villa Rigatti. Oggi quel leone antico,
di fattura orientaleggiante, insieme a un suo gemello, si trova ad Aquileia alla base dell’imponente monumento funerario o “mausoleo” ricostruito ai bordi della via
Iulia Augusta nei pressi della spianata del Foro (in origine si trovava nella campagna di Fiumicello – al Roncolòn – al bordo di una strada romana, molto probabilmente
la via Gemina). In paese abitavo nella via principale, proprio di fronte al piazzale dei Tigli, dove si trovava la scuola elementare, un dignitoso edificio asburgico demolito negli anni sessanta per far posto al nuovo municipio, una costruzione decisamente non bella. Quando frequentavo la quarta elementare presi una decisione:
in una zona periferica di quel piazzale, che avevo in precedenza individuato e valutato (non ricordo con quali motivazioni), avrei iniziato uno scavo alla ricerca di qualche favoloso tesoro o comunque di qualche reperto dell’antica Aquileia. Armato dunque di pala e piccone iniziai entusiasta il nuovo gioco-lavoro. Lo scavo, con le pause opportune, andò avanti per alcuni giorni mentre diversi bambini e qualche adulto venivano a curiosare e a far domande. Ma di cose antiche non se ne vedevano. Quando ormai cominciavo a stancarmi, un giorno, dopo aver smosso il terreno al fondo del buco ormai profondo, ecco apparire qualcosa di luccicante. Grande sorpresa e grande gioia: mi ritrovai fra le mani una collanina di pietre colorate. Avevo trovato un tesoro antico! Anche due o tre bambini che era no presenti e che ogni tanto mi avevano aiutato gridarono di gioia. Dopo un po’ si avvicinò anche un adulto, un ragazzone di più di vent’anni che era già venuto a vedere lo scavo. Era “Nelo Barbìr”, Nello Barbiere (aveva la bottega da barbiere in piazza ed era noto per essere un buontempone: ricordo che girava per il paese con un lungo serpente nero attorno al collo, un biacco, “garbòn” in friulano). Anche lui partecipò alla nostra gioia. Poi però cominciò a sghignazzare. Finché ci rivelò che era stato lui, la sera prima, a mettere la collanina nel buco. E giù a ridere. Sulle prime ci rimasi un po’ male, ma imparai presto a fare buon viso a cattivo gioco. Poi venne il tempo delle medie e mio padre decise di mandarmi a Grado, che era la scuola media più vicina. Per tre anni di seguito ogni giorno ho fatto su e giù con la corriera della Ribi, pas sando ovviamente per Aquileia. Ero molto curioso di vedere le rovine della città romana e le prime settimane in corriera le ho passate incollato ai finestrini per scoprire i resti o i tesori di cui mi aveva tanto parlato il maestro alle elementari. Ma anche se passavo sia per Monastero che lungo la via centra le di Aquileia, oltre al campanile e alla basilica vedevo molto poco di interessante: qualche scavo e qualche rudere. Solo alcuni anni dopo (andando ai bagni a Belvedere) vidi il foro con le colonne ricostruite, perché nel frattempo erano state abbattute le case che ne impedivano la vista dalla strada. Vidi anche il grande monumento funerario o Mausoleo ricostruito in quegli anni. Per lunghi anni comunque Aquileia non mi at tirava. Ne sentivo parlare, leggevo di nuovi scavi, di qualche scoperta; quando frequentavo le superiori ho fatto anche una gita scolastica ma senza troppi entusiasmi.
San Marco a Belvedere
Il coinvolgimento personale, la ripresa di interesse per Aquileia arriverà molto tardi. E c’è un giorno preciso in cui tutto ha avuto inizio, una decina di anni fa. Una gita, un luogo che non conoscevo, un’immediata fascinazione: è la chiesetta di San Marco a Belvedere di Aquileia. È raggiungibile percorrendo la strada alberata che porta a Grado; prima di Belvedere, quando sulla destra appare un cartello stradale con l’indicazione “San Marco” si svolta, si lasciano sulla destra i cinque camini e le cento finestre vuote della grande casa colonica Colloreda, si percorrono poco meno di 2 km di strada sterrata, tra lepri che fuggono e fagiani che prendono il volo e in fondo appare un gruppo di pini marittimi. Prima i pini dunque, poi su un’altura si intravede il retro di una piccola chiesa; il retro perché la chiesa guarda verso il mare, verso la laguna, lì a pochi metri. Dunque San Marco approdò qui proveniente da Alessandria d’Egitto, e da qui iniziò la sua missione evangelizzatrice nell’Alto Adriatico, secondo la leggenda (come viene sottolineato nella tabella illustrativa accanto alla chiesa). La chiesa attuale risale al Settecento ma è stata costruita al posto di un’altra preesistente, sempre in ricordo dell’approdo di San Marco. È una storia antica, ma la chiesa (la chiesa ufficiale) non crede allo sbarco qui di San Marco e, come sta scritto nella tabella, la dedica della chiesa all’evangelista è solo tradizione. Eppure… eppure questo luogo è magico: i pochi pini stanno lì a testimoniare la pineta litoranea esistente lungo la costa adriatica fino a Ravenna; la montagnola su cui sorge la chiesa è ciò che resta delle dune sabbiose che caratterizzavano in antico questi luoghi. Tutto oggi è diverso, cambiato rispetto a duemila anni orsono; questo è un posto isolato, dove gli alberi, il mare, la campagna silenziosa invitano alla contemplazione, al raccoglimento, a una full immersion in un paesaggio suggestivo dominato, poco lontano, dalla presenza sull’orizzonte del campanile di Aquileia. E là, oltre il mare, Alessandria, l’Egitto, il Nilo, le piramidi, il deserto. Ero felice di aver scoperto quella chiesetta, per più ragioni.
Prima fra tutte il ricordo di Alessandria, una città che ho conosciuto bene.
Il viaggio di una vita
Nel 1980 ho fatto un viaggio nel vicino oriente, durato quasi due mesi (tutte le vacanze dell’insegnante di allora), il mio viaggio più importante, un viaggio avventuroso, segno dei tempi ma anche di un desiderio personale di conoscere quei luoghi mitici nei quali ha avuto inizio la storia dell’umanità. Perciò lo racconto dall’inizio alla fine, seppure in modo succinto, perché avevo come obiettivo l’Egitto delle piramidi, del Cairo, di Alessandria. Alla partenza con la mia vecchia Fiat 1500 mi son detto: vediamo, se arrivo a Lubiana attraverso il passo di Piro (quella strada allora era sterrata) vuol dire che la macchina va, e allora proseguo fino alle piramidi. Detto fatto, attraverso Jugoslavia e Bulgaria con fermate anche lunghe. Poi la Tracia, Istanbul e l’Anatolia dall’Egeo alla Cappadocia fino ad Antakya (l’antica Antiochia). Poi passo il confine con la Siria, arrivo ad Aleppo, Hama, Homs, ma realizzo che dalla Siria non si può entrare in Israele; mi fermo a Latakya (Laodicea) città sul mare con un porto importante. Faccio amicizia con un armeno che “traffica” nella zona del porto e mi riferisce, tra l’altro, che due giorni dopo sarebbe arrivata qui da Odessa una nave sovietica diretta ad Alessandria d’Egitto. Il giorno della possibile partenza esco dal mio albergo e trovo sette o otto arabi che vogliono comprare la mia automobi le. Mi offrono una cifra molto allettante corrispondente a 4 milioni e mezzo di lire, sull’unghia, per una macchina che in Italia ne valeva meno di un milione. Ma non posso, purtrop po, devo andare in porto con l’auto e, se posso, portarla con me ad Alessandria. Arriva la motonave sovietica, si chiama “Baskiria” (una repubblica autonoma dell’URSS sopra gli Urali). L’armeno conclude un accordo con i marinai per un biglietto, auto compresa: il prezzo è buono, cabina interna, mensa con l’equipaggio, il giorno dopo sarò ad Alessandria. La macchina viene imbragata con corde e issata sul ponte con una gru. Poi si parte. Ricordo la cena in mensa a base di pesce affumicato con un simpatico ufficiale russo (maglietta a righe come quella dei marinai della corazzata Potëmkin) e i passeggeri arabi tutta la notte a parlare fra di loro (non sotto voce) e ad ascoltare musica dalle loro radioline. Prima di fer marci al porto di Alessandria, ancora al largo, vedo dall’oblò un gran numero di barche avvicinarsi alla nave, da cui ven gono gettati in mare pacchi che in qualche modo restano a galla e sono poi recuperati dagli uomini delle barche accorse, mentre casse più pesanti vengono calate direttamente su im barcazioni più grandi. È evidente il gigantesco contrabbando, tollerato da tutti, sicuramente anche di armi. Poi tocca a noi sbarcare. E cominciano i guai: l’automobile non ha una certa carta ritenuta molto importante al controllo dei documenti per cui mi viene subito sequestrata. Che fare? Resto con zaino e due grandi sacchi pieni di ciò che tenevo in auto. Mi viene un’idea: prendo un taxi e mi faccio portare al consolato d’Ita lia dove vorrei avere spiegazioni e aiuto. Trovo chi mi ascolta e mi fa conoscere il console. Mi vien detto che riavrò la mac china al momento di lasciare l’Egitto. Il console mi invita nel suo appartamento e mi offre qualcosa di alcolico (uno Strega) dopo un mese di astinenza forzata (per la non reperibilità di alcol in quei paesi islamici). Parliamo a lungo di Alessandria e scopro con piacere che il console è un appassionato co noscitore della storia di questa metropoli dell’antichità patria dell’ellenismo, del primo cristianesimo, di copti, greci, ebrei, egizi, romani, degli esseni, dei terapeuti, degli gnostici, dei neoplatonici, con la sua grande biblioteca, la più famosa dell’antichità, con il suo faro alto più di 130 metri, che era una delle sette meraviglie del mondo conosciuto. E altro ancora, e mi consiglia cosa andare a vedere. Così, dopo le visite al Cairo (in autobus), al Nilo, alle piramidi, al deserto, mi sono fermato ad Alessandria per una settimana, ospite del gentile diplomatico, che mi ha invitato a rimanere (gratis) alloggiato alla meglio in uno scantinato del consolato. Poi, per farla bre ve, la difficoltosissima restituzione della macchina (con l’aiuto del console) e il ritorno su un traghetto della società “Italia” diretto a Venezia (con comandante triestino). Per me però era obbligatorio scendere ad Atene (Pireo) e proseguire in macchina attraverso Grecia e Jugoslavia perché ero rimasto con pochissimo denaro. Fine. Ma qui ho raccontato solo l’essenziale perché quel viaggio è stato davvero indimenticabile.
Comincia la ricerca…
L’approdo di San Marco, fondatore del cristianesimo alessandrino, in missione evangelizzatrice ad Aquileia, sarebbe dunque stato uno dei primi collegamenti fra le due metropoli del Mediterraneo. È assodato comunque che otto secoli dopo, sempre ad Alessandria, il corpo del santo verrà trafugato da marinai veneti e portato a Venezia, che nell’Alto Adriatico aveva ormai preso il posto di Aquileia, e tumulato in seguito nella nuova basilica che gli verrà dedicata. Dopo quella prima gita sono ritornato più volte alla chiesetta di San Marco. Ma da allora ho iniziato anche una serie di esplora zioni di Aquileia, approfittando di ogni giorno o di ogni mezza giornata disponibile per partecipare a conferenze o visite gui date organizzate a scavi archeologici, alla Basilica o al mu seo, o semplicemente portandomi la bicicletta in automobile e utilizzandola poi in piacevoli e istruttivi giri in paese o nei dintorni. Ho anche raccontato all’amico Paolo Viola del mio “innamoramento” per quel luogo in cui approdò San Marco, che lui tra l’altro non conosceva. Però Paolo, appassionato di Aquileia antica, sapeva molte cose su Aquileia e Alessandria e sullo sviluppo degli studi sull’argomento. Un giorno mi ha anche invitato a casa sua per conoscere il professor Renato Jacumin, che era suo ospite. Col professore ci diamo un ap puntamento per un’intervista. Jacumin è autore di varie pub blicazioni sui mosaici dell’aula nord della basilica di Aquileia e nell’occasione sono venuto a sapere dell’ipotesi “gnostica” formulata dallo stesso Jacumin e degli studi di Pressacco, Biasutti e altri sulla presunta origine alessandrina del cristia nesimo aquileiese. Mi rendo conto che questo argomento può non suscitare grandi curiosità, specie in chi, come chi scrive, non coltiva con particolare interesse studi o ricerche di carattere teologico. Ma la notevole mole di indagini svolte da questi studiosi su singoli aspetti della religiosità popolare in Friuli, i numerosi e affascinanti collegamenti assolutamen te inediti con la metropoli egiziana dell’antichità, gli accosta menti linguistici friulano/latino/greco e altre lingue, conferi scono a queste ricerche uno straordinario motivo di interesse per la storia della nostra città romana e del Friuli…
Anche sul campo
Il turista con cui ho parlato di Aquileia era friulano, un profes sore di scuola media di Spilimbergo. Ci siamo incontrati per caso alla bancarella delle angurie. Entrambi avevamo finito un giro nella città romana fra scavi e monumenti. Entrambi prima di ritornare a casa avevamo bisogno di una pausa di riflessione, e di dissetarci un po’. Sulle prime ci siamo scam biati alcune impressioni sui vari siti visitati ma dopo un po’, complice il rosso frutto dell’estate, salta fuori il rospo. Che, per entrambi, è un vago senso di insoddisfazione per ciò che abbiamo visto, per come Aquileia si presenta al visitatore. E di questo parliamo, fra turisti, cercando di capire il perché di questo nostro stato d’animo. Getto il primo sasso: “Sulla stampa si dice che Aquileia sarebbe ancora sotto terra, tutta da scoprire, come una nuova Pompei. Forse entrambi abbia mo constatato che dell’antica Aquileia resta invece poco da vedere”. Ribatte subito l’insegnante: “Questo è un problema non da poco che, credo, tutti i turisti si pongano. Infatti, se si escludono le rovine del porto fluviale o ciò che è conser vato nei musei, rimane qualche lacerto di strada romana, i pavimenti e i muri di antiche abitazioni o qualche colonna spezzata rimessa in piedi. Ma dove sono le mura possenti che avevano resistito ad assedi prolungati o gli edifici che avevano ospitato imperatori e generali di Roma? Non si ve dono. Perfino il fiume che circondava la città non può essere certamente quel misero corso d’acqua che oggi costeggia la cosiddetta “Via Sacra””. Anch’io mi ero posto le stesse domande. Ma di fronte alle certezze del mio interlocutore, rimango pensoso. E cercando un dialogo gli ricordo Attila, che Aquileia l’ha distrutta, rasa al suolo… “Attila non basta a spiegare – rimarca l’insegnante – Aquileia non muore con Attila, muore dopo, lentamente… lo ho visitato Cartagine, anche Troia, famose città distrutte molto tempo prima di Aquileia, eppure là si vedono ancora mura e resti archeologici di rilievo (e comunque il fascino di questi nomi è già un’attrazione). La verità è che Aquileia è scomparsa, sparita. Se non fosse per la basilica e per il campanile, che però sono medievali, della città romana resta ben poco. Perché? Perché oggi siamo qui, in un piccolo paese di campagna, mentre l’antica Aquileia non si vede? E pensare che in età augustea era una metropoli con più di 200.000 abitanti… Questo è il mistero di Aquileia. Questo andrebbe spiegato alla gente che la visita, ai turisti”. Poi c’è la storia di Aquileia, una storia complessa, e anche su questo concordiamo. Infatti c’è la città romana, quella cristiana, quella medievale: un’altra complicazione per il turista, che di solito pensa semplicemente di trovarsi di fronte alle rovine di un’antica città romana, per grandezza la quarta in Italia e la nona in tutto l’impero, come dicono guide e dépliant. Invece è difficile cogliere una storia unitaria di Aquileia, mettere insieme la basilica con i suoi mosaici, gli scavi, i reperti conservati al museo archeologico o in quello paleocristiano e le diverse informazioni che libri, documenta ri, giornali e internet ti sciorinano sul tema. E poi succede anche che il visitatore non trovi nel suo giro di visite spiegazioni sufficienti, adeguate. Ma nel mio interlocutore percepisco lo stesso ostinato interesse, la stessa fascinazione che provo io stesso per Aquileia. In piccolo, è come mettere insieme le tessere di un puzzle: quando cominci a intravvedere il tutto, e vedi che è possibile, allora ti ci metti proprio d’impegno. Solo che, nel caso di Aquileia, la posta, o la scoperta, è molto più importante, e più coinvolgente. L’incontro col professore di Spilimbergo è un episodio di tre o quattro anni fa, che ricordo bene, perché da quel giorno ho messo Aquileia fra le mie “fisse”, e ho incominciato a documentarmi sull’argomento, stimolato proprio dal comune sentire con quel turista friulano e i suoi giudizi tranchant, pur discutibili ma contenenti certe verità. Così, dopo qualche tempo, ho partecipato a una vi
sita guidata a scavi e monumenti della durata di un giorno, organizzata dalla “Fondazione Aquileia”, il nuovo organismo nato alcuni anni fa con il compito di promuovere lo studio, gli scavi archeologici e la conoscenza di Aquileia. Nel corso di questa visita mi sono confrontato con altri partecipanti – tutte persone culturalmente preparate – che mi hanno confermato i dubbi e le perplessità che avevo riscontrato parlando col professore di Spilimbergo. Tra l’altro il sindaco e presidente della fondazione professor Scarel aveva introdotto la visita sotto lineando il fatto che “il sito storico e archeologico di Aquileia non è di facile e immediata comprensione” (come volevasi dimostrare!).
La città scomparsa
Nell’anniversario della distruzione di Aquileia da parte de gli Unni di Attila (18 luglio 452 d.C.), la Società friulana di archeologia ha organizzato un incontro pubblico per ricor dare quell’importante avvenimento storico. Un pubblico numerosissimo è accorso all’appuntamento, fissato pro prio il 18 luglio scorso di fronte al Museo paleocristiano di Aquileia, frazione di Monastero. Per introdurre l’argo mento il professor Maurizio Buora, autore di diversi studi su Aquileia, ha voluto condurre i presenti a poche decine di metri dal museo, oltre il ponte sul piccolo fiume Natissa che attraversa la piazza della frazione, per dare subito un’idea della situazione e del contesto in cui il re degli Unni aveva cinto d’assedio la città romana. È stato il momento più importante di tutta la conferenza, pur interessante e ar ricchita dalla proiezione di significative immagini. Il profes sore infatti ci ha raccontato che in quel luogo, fra il piccolo fiume e le case lungo la strada a cento metri a nord del ponticello, sono state scoperte le fondamenta delle mura e della porta settentrionale d’ingresso nella città antica. Si trattava di una porta di grandi dimensioni situata fra due torrioni alti circa otto metri, che all’interno disponeva di ampi locali per la preparazione delle difese e per gli alloggi dei soldati di guardia. Le fondamenta della porta e delle mura sono state scoperte in anni recenti mentre si lavora
va alla realizzazione delle moderne fognature di Aquileia. Inoltre, nelle immediate vicinanze della porta, sono state trovate anche numerose punte di freccia, di giavellotto e altri resti di armi del tempo. Ovviamente i reperti sono stati prelevati, le fogne realizzate e tutto lo scavo è stato ri
coperto. Oggi tutt’intorno non si vede niente. Niente che richiami l’Aquileia antica, la grande porta o le alte mura che cingevano la città romana. Neanche il corso d’acqua di ri sorgiva che scorre lì accanto e che oggi si chiama Natissa è lo stesso fiume di allora – chiamato da Plinio il Giovane “Natiso cum Turro” – che circondava la città e che cen to o duecento metri più a valle era largo quasi cinquanta metri (all’altezza del porto fluviale). Ma cominciamo il nostro viaggio dall’immagine più nota, l’immagine simbolo di Aquileia: la fotografia, divenuta oggi una diffusa “cartolina”, che rappresenta le colonne del foro sullo sfondo del grande campanile. È questa un’immagine molto sugge stiva, che corrisponde alla realtà odierna della città e che mostra subito al turista il duplice volto di Aquileia, quello delle antichità romane e quello della città patriarcale di mil le anni più tarda. Ma per questo stesso motivo è un’im magine problematica, che andrebbe subito spiegata. Gli studiosi sono consapevoli di questa sua “problematicità” e spesso nei loro libri o nelle loro conferenze sui vari temi inerenti ai suoi monumenti, gli scavi, i musei, spesso giu stamente premettono che questa città è di difficile o non immediata comprensione. Ma la “problematicità” di Aqui leia ha molte altre motivazioni. Ecco, quello che mi accin go a scrivere è il risultato di una ricerca, di una possibile risposta alle domande che il turista curioso si fa visitando questa città misteriosa e affascinante.
Non c’è “l’alzato”
Aquileia dunque è un mistero. Non è come Roma, dove c’è il Colosseo, le imponenti mura aureliane, il pantheon, le ter me di Caracalla e molti altri resti della più grande metropoli dell’antichità. Non è come Leptis Magna in Libia o Cartagine in Tunisia, come Efeso in Turchia o Treviri in Germania, tut te città antiche, più o meno grandi, con vestigia importanti, visibili; edifici, templi, costruzioni risalenti al periodo aureo dell’impero romano. Aquileia è diversa. La città romana è letteralmente scomparsa, invisibile al primo sguardo. Oggi il visitatore fatica a mettersi in sintonia con la città antica, a individuare i resti romani; non trova in tutta l’area archeolo gica un solo edificio del passato rimasto in piedi. Non c’è l’”alzato”, come dicono gli archeologi, intendendo con que sto termine i resti di edifici in verticale, mura o colonne. Ciò che si può vedere di autentico è tutto al livello del suolo, dei pavimenti o del sottosuolo, come i resti del porto fluviale o i mosaici paleocristiani della basilica. Con due eccezioni. C’è da precisare infatti che il visitatore, quando comincia la visita di Aquileia romana, si imbatte immediatamente in due alzati evidenti, importanti per l’immagine della città: le colonne del foro e il grande Mausoleo funerario alto più di 15 metri, nel le vicinanze del foro stesso. Ma entrambi questi alzati sono stati realizzati, ricostruiti, in tempi recenti. Nel 1936 infatti si è provveduto alla ricostruzione (anastilosi) di alcune colonne di marmo bicolore, appena qualche anno dopo che l’archeologo Giovanni Battista Brusin ebbe intrapreso una importante campagna di scavi e individuato il sito del foro di Aqui leia. Nel 1956 altri archeologi fra cui lo stesso Brusin, sulla base di frammenti di un grande monumento funebre ritrovati a Roncolòn (Fiumicello) non lontano da Aquileia, sul percor so della via Gemina, procedette al restauro dello stesso, alla sua ricostruzione e collocazione nel luogo in cui si trova oggi. Entrambi questi interventi hanno suscitato discussioni e pa reri diversi fra gli studiosi, soprattutto quello relativo al mo numento funerario (oggi chiamato Grande Mausoleo) perché esso è stato sistemato in un luogo diverso da quello in cui è stato ritrovato (lapidi e monumenti funerari venivano collocati fuori città, lungo le strade principali). Ecco dunque spiegata l’eccezione dell’esistenza in Aquileia di questi due noti “alzati”. Stanti così le cose possiamo dunque affermare che fino a non molti decenni orsono (fino a metà degli anni Trenta del secolo scorso, come abbiamo visto), al primo sguardo, eccezion fatta per la basilica col suo campanile, dell’antica Aquileia romana non si vedeva proprio nulla.
La distruzione di Aquileia
Ovviamente tutti sapevano e sanno della grande Aquileia del passato, erano ben noti i testi degli antichi scrittori romani, cristiani e dell’Aquileia dei patriarchi, che parlavano della grande metropoli dell’antichità con le sue mura possenti più volte ricostruite, dell’anfiteatro, del circo, del porto fluviale ricchissimo di traffici, delle sue strade importanti, delle vicende dei primi cristiani della basilica con i suoi magnifici mo saici, fino alla grande realtà feudale del Patriarcato. Ma qui è lecito porsi una domanda. Come mai una città così grande, così importante è stata completamente distrutta, letteralmen te rasa al suolo e, soprattutto, perché di essa oggi non rimane quasi più traccia? A scuola abbiamo imparato che i romani avevano distrutto l’odiata Cartagine e avevano cosparso di sale le sue rovine per non farla risorgere mai più; eppure la città di Annibale è poi stata ricostruita, e le sue rovine sono ancora oggi visibili e molto eloquenti. Cos’è successo allora alla nostra Aquileia?
È tutta colpa di Attila?
La risposta sembra facile, è la risposta che è sempre stata data a chi si è fatto e si fa ancora oggi questa domanda: è stato Attila, il re degli Unni, il più conosciuto, il più feroce fra tutti i “barbari”. È stato lui a distruggere, a radere al suolo Aquileia, che da allora non si è più ripresa, non è più risorta. Dove passava Attila l’erba non ricresceva più. Una risposta vera, ma solo in parte. È una risposta molto semplice, e anche convincente, tale da escludere subito eventuali distinguo, eventuali altre cause, che invece sussistono e sono diverse e tutte rilevanti. Come vedremo. Intanto la distruzione di At tila, pur certa storicamente, non è detto che sia stata di pro porzioni talmente gravi da impedire la successiva rinascita di Aquileia. Gli storici antichi e gli studiosi fino a qualche tempo fa ipotizzavano che l’assedio di Attila fosse durato circa tre mesi, dopo i quali si sarebbe verificato il famoso racconto della cicogna che abbandona coi suoi piccoli le mura della città assediata e l’interpretazione di Attila che vide in questo episodio un segnale della debolezza della città, spronando così i suoi all’assalto e alla sua definitiva conquista. Oggi invece si dice che l’assedio sarebbe durato tre giorni e che Attila aveva fretta di proseguire per Roma e che, come tutti i “barbari”, era interessato soprattutto al bottino più che a per der tempo e a demolire edifici e mura cittadini (ma sono state trovate tracce di incendio risalenti a quel periodo). E comun que la vitalità della Chiesa di Aquileia dopo Attila testimonia che la vita nella città adriatica era ripresa.
“Non ricostruitela!”
Ma vediamo alcuni scritti interessanti di qualche secolo più tardi, come un poema in versi latini intitolato Versus de de structione Aquilegie numquam restaurande (Versi sulla di struzione di Aquileia che non dovrà più essere ricostruita) at tribuito a Paolino d’Aquileia (che successivamente sarà fatto santo) e databile dopo 1’800 d.C. al tempo di Carlo Magno, cioè circa quattro secoli dopo la distruzione di Aquileia da parte di Attila. Vediamo qui di seguito la traduzione di alcu ni passi: Per piangere, o Aquileia, le tue ceneri non ho la crime bastanti… Una volta eri bella, illustre, rinomata per le tue ricchezze, splendida di palazzi, famosa per le mura e più ancora per le innumerevoli folle dei tuoi cittadini. Capitale e metropoli… mentre eri nel pieno rigoglio di tutte queste delizie, poiché ti eri gonfiata di grande superbia hai ammassato, o infelice, l’ira del Giudice eterno. La collera del cielo mise in moto una crudele popolazione, che mossasi dall’oriente era destinata a compiere celermente la tua distruzione… Attila ferocissimo, implacabile… con cinquecentomila soldati sprona all’assalto il suo esercito: con macchine da guerra percuoto no violentemente le mura… espugnano la città, la bruciano e distruggono radendola al suolo. Eri piena di alte case, di candidi marmi… ora sei diventata una spelonca per zotici un tugurio di poveri… Sei venduta per tutte le terre d’intorno… dalle tombe si gettano via i cadaveri per avere marmo da ven dere. Accanto al lamento (sincero?) per la sorte della città, in questi versi è evidente il proposito dell’autore di incolpare Aquileia di superbia, per cui la sua distruzione sarebbe av venuta per volontà di Dio. In realtà questi versi fanno pensa re a un’operazione teologico-politica dettata dalle rivali del tempo, Grado e Venezia, con la finalità di dissuadere Carlo Magno dall’intento di ricostruire la città, come gli aveva chie sto il patriarca di Aquileia Massenzio. Questo accanimento “propagandistico” è addirittura sfacciato in un altro poema simile di autore ignoto, di qualche decennio posteriore, Car men de Aquilegia numquam restauranda (Carme su Aquileia che mai più dovrà essere riedificata). Qui ad Aquileia vengono date colpe ancora maggiori; essa avrebbe ammucchiato mali sopra mali, aggiunto delitti a delitti perché è dura di cuore e perfetta nel delitto. Così la nascente Venezia è splendida e gloriosa e supera tutte le nazioni per divina grazia, Aquileia in vece, poiché offese Dio con immani scelleratezze per le quali meritò di essere distrutta da mani pagane oggi è condannata a ospitare i serpenti e le rane nelle sue paludi. Come si vede, qui non siamo in presenza di resoconti di fatti documentati o storici riguardanti l’assedio di Attila, come quelli dei cronisti Jordanes e Procopio di Cesarea del VI secolo d.C., qui la storia diventa volontà di Dio, religione, “strumentalizzazione” politica, si dice oggi. In questi scritti Attila re degli Unni e la distruzione di Aquileia sono già leggenda e lo diventeranno ancor di più successivamente. Qui è solo opportuno aggiun gere che due secoli dopo questi scritti il patriarca Poppone diede un nuovo impulso alla ricostruzione di Aquileia ristrut turando la basilica e costruendo il grande campanile (1031 d.C.) che ammiriamo ancora oggi. Ma lo stesso Poppone, a causa della suddetta persistente rivalità, si rese responsabile di più incursioni manu militari nella vicina Grado, depredan dola e distruggendola brutalmente. Ma questi due scritti ci danno anche altre informazioni e l’occasione di alcuni ne cessari approfondimenti per rispondere alla domanda che ci siamo posti.
Le paludi
Vi si parla infatti delle paludi che nei lunghi anni di abbandono avevano cominciato ad estendersi intorno ad Aquileia. Una città costruita notoriamente su un territorio che richiedeva il mantenimento di un complesso equilibrio idrogeologico fra il mare (con il movimento delle maree), la laguna e una rete di
piccoli fiumi di risorgiva e di canali artificiali che caratterizza vano la costa dell’alto Adriatico. Rotto questo equilibrio, an che per l’abbassamento dei terreni (bradisismo) ma soprat tutto a causa di guerre e invasioni, gli abitanti erano fuggiti,
e per lunghi periodi le campagne non vennero più coltivate; prevaleva l’abbandono e l’incuria, e i terreni paludosi pren devano il sopravvento mentre si diffondeva la malaria e altre malattie in un ambiente malsano e invivibile. Solo nel Sette cento si cominciarono a realizzare opere di bonifica (la cosid detta bonifica di Maria Teresa d’Austria). Questa situazione di precarietà si protrasse per molto tempo e, seppure attenuata, fin quasi agli inizi del Novecento.
I fiumi
Un altro aspetto del territorio aquileiese che merita un’attenta considerazione è quello del cambiamento di corso o di por tata d’acqua dei fiumi, in epoca storica, soprattutto a parti re dal 588 d.C., anno in cui si verificò un’immane catastrofe con straripamenti e inondazioni, una specie di “diluvio” che sconvolse la pianura friulana e cambiò il corso dell’Isonzo, del Natisone, del Torre e interessò anche il Timavo. Infatti al fenomeno delle risorgive lungo la Bassa pianura friulana bisogna aggiungere la vicinanza dell’altopiano carsico con le sue doline e grotte in cui si infiltra l’acqua piovana e scorrono corsi d’acqua sotterranei, come il Timavo appunto. Rispet to all’epoca imperiale, quella di maggior sviluppo di Aqui leia, oggi la situazione è notevolmente cambiata. Al tempo avevamo probabilmente il Natiso cum Turro (citato da Plinio il Giovane), ovvero il Natisone con il Torre che ancora non confluivano nell’Isonzo ma costituivano insieme l’antico Na tissa, il fiume che al tempo scorreva a oriente sotto le mura di Aquileia, e sulle cui rive era stato costruito il porto fluviale. Questo fiume sfociava poi in mare autonomamente. L’Isonzo aveva probabilmente un’altra foce, più a oriente dell’attuale e scorreva anche su un altro alveo che costeggiava il Car so (individuato all’altezza di Ronchi, dove sono stati trovati anche i resti di un ponte). Poiché rilevanti quantità di acqua dell’Isonzo e del Vipacco s’infiltravano (e s’infiltrano tutt’oggi) lungo il percorso carsico, a sud di Gorizia e a Savogna, è stato ipotizzato che le foci dell’Isonzo e del Timavo potes sero essere molto vicine o formassero addirittura un’unica grande foce. Le bocche del Timavo erano più numerose delle tre odierne (secondo Virgilio erano nove, per Strabone sette, ancora più numerose per altri scrittori) e l’acqua usciva dalle rocce abbondante e con gran fragore, tanto che la foce veni va chiamata “madre del mare”. Sulla “tabula Peutingeriana” si può notare che nei pressi del Timavo c’è anche un lago, l’antico “Lacus Timavi”. Queste sono tutte ipotesi, tentativi di immaginare il territorio formulate in base ai documenti e agli scritti del tempo, in mancanza di fonti certe.
La laguna
Come il corso dei fiumi anche la laguna non era la stessa che vediamo oggi. Molto probabilmente il livello del mare allora era più basso e di conseguenza era più elevata l’area di terre emerse. La linea di costa era caratterizzata dalla presenza di dune sabbiose e da una pineta che da Duino arrivava fino a Ravenna. Resti di dune e della pineta si trovano ancora oggi a Morsano di Belvedere intorno alla chiesetta di San Marco, nel luogo (molto suggestivo) in cui secondo la tradizione popolare sbarcò l’evangelista Marco per diffondere il cristianesimo ad Aquileia. A occidente dell’attuale strada da Belvedere a Grado, costruita negli anni Trenta del Novecento, sono stati trovati resti di un’antica strada che quasi certamente collega va Aquileia con la stessa Grado (ne parla anche Paolo Dia cono). Anche l’isola di Barbana in passato era abitata e forse era il lazzaretto di Aquileia. La costruzione del santuario è legata al ritrovamento sull’isola di un’immagine della Madon na ritenuta miracolosa, dopo la grande alluvione del 588 d.C. su ricordata.
Il lungo saccheggio
“Sei venduta per tutte le terre d’intorno… dalle tombe si gettano via i cadaveri per avere marmo da vendere”, scrive nell’800 d.C. Paolino d’Aquileia: è questo in sintesi ciò che è accaduto alla città romana per oltre mille anni, fino quasi ai nostri giorni. Con la caduta di Aquileia per effetto dell’asse dio di Attila comincia il saccheggio di opere d’arte, oggetti di valore ma soprattutto pietre lavorate e squadrate, lapidi e marmi riutilizzati in gran quantità come materiali da co struzione a Venezia, Padova, nelle altre città della costa e lagunari, compresa Grado. Questa spoliazione sistematica dell’antica Aquileia è stata oggettivamente incoraggiata dai poemi su ricordati (“non dovrà più essere ricostruita”) ma lo stesso patriarca Poppane userà nel 1024 le pietre prelevate dall’anfiteatro romano (di cui oggi rimane solo qualche trac cia) per costruire il campanile. Si continua così nei secoli suc cessivi: tutti i paesi e le città del circondario riutilizzeranno le pietre di Aquileia per costruire case e strade; in particolare per la costruzione nel XVI secolo della fortezza di Palmanova (chiamata significativamente dai suoi costruttori “Nova Aqui leia”). Ma il visitatore ottocentesco o del primo Novecento si trovava comunque in presenza di un paese di campagna della Bassa friulana, come tanti altri. Anche se era noto che arando i campi i contadini si imbattevano spesso in pietre antiche. La gente del paese sapeva che dal terreno poteva no affiorare monili, ambre preziose, resti od oggetti antichi di varia natura. C’era anche chi già nel Settecento ricercava e collezionava tutto ciò che era possibile avere o comprare in loco. Ma diverse opere d’arte ritrovate andarono disperse in tutto il mondo, in Inghilterra, in Francia, a Vienna, a Venezia ma anche a Udine e a Trieste. Nella stessa Aquileia nel cor so dell’Ottocento si formarono alcune collezioni importanti. Finché nel 1882 le autorità austriache (Aquileia faceva par te dell’Impero austroungarico) raccolsero in un museo lapi di, are funerarie, statue, arnesi, gioielli, tutti i resti dell’antica Aquileia restituiti dalla terra. Nacque il Museo Archeologico, nella sede in cui si trova tutt’oggi. E cominciarono anche le esplorazioni sistematiche del territorio, le campagne di scavo e i controlli sul ritrovamento di antichità. Da allora anno dopo anno si sono susseguite ad Aquileia grandi scoperte arche ologiche che hanno caratterizzato la prima metà del Nove cento. Ricordiamo le più importanti: nel 1909 i mosaici della basilica, nel 1934 il porto fluviale e il complesso del foro romano. Fra le due date, come è noto, c’è stata la prima guerra mondiale, che proprio in questi territori vide le dodici cruente battaglie dell’Isonzo combattute fra italiani e austriaci. È bene rammentare che la scoperta dei mosaici della basilica risale al tempo in cui Aquileia faceva ancora parte dell’Impero austroungarico, mentre il porto fluviale e il foro furono scoperti dopo la guerra quando Aquileia era già Italia, e precisamente in pieno ventennio fascista.
Baruffe aquileiesi
La storica francese Claire Sotinel nell’introduzione al suo im portante libro Identitè civique et cristianisme: Aquilèe du 3° ai 6° siècle (2005) rileva come i conflitti e le vicende di confine del Novecento fra Italia e Austria e fra Italia e Jugoslavia ab biano influenzato gli studi sulla città romana, a causa del na zionalismo nel primo caso e successivamente per una sorta di marginalismo localistico (“campanilisme radical”) dovuto alla vicina presenza della “cortina di ferro”. È un’osservazione condivisibile; scontata per certi aspetti dei nazionalismi au striaco italiano degli anni anteriori e posteriori alla prima guer ra mondiale; più complessa da definire per quanto concerne il conflitto fra Italia e Jugoslavia dagli anni della guerra fredda fino ai giorni nostri. In questo secondo caso forse la storica francese pensa a diatribe di tipo “campanilistico radicale” dovute all’isolamento dell’area friulana in cui si trova Aquileia, divenuta marginale a occidente dopo la seconda guerra mon diale, e la vicina e assai poco permeabile (anche nel campo degli studi) frontiera col mondo comunista dell’est europeo. Queste diatribe avrebbero riguardato soprattutto studiosi friulani o regionali ma anche, in anni più recenti, omologhi storici sloveni. In particolare la Sotinel, in un modo molto francese (cioè irritante per taluni, per altri molto autorevole) punta il dito su alcuni studiosi di Aquileia i quali poi a loro volta rispondono punto per punto con lunghissime recensioni del suo libro che, peraltro, da tutti è ritenuto molto valido (“superbo” a detta di alcuni storici inglesi). Non entro nel me rito, anche perché non ne ho le competenze. Mi soffermo sul le polemiche semplicemente per segnalarle, perché le ritengo utili e vitali, anche considerando come Aquileia continui da più di cento anni a suscitare discussioni, contrapposizioni, diverse interpretazioni di questo o quell’aspetto della sua sto ria. Un altro libro della stessa mole di quello della Sotinel, Il cristianesimo aquileiese prima di Costantino (1999) di Rajko Bratož, uno degli storici locali presi di mira dalla storica fran cese, è stato tradotto dallo sloveno in italiano da case editrici locali e così è stata tradotta anche la lunghissima recensione di Bratož del libro della Sotinel. Sorprendentemente invece il suddetto libro della storica francese dopo dieci anni dalla sua pubblicazione non è ancora stato tradotto in italiano. Eppure è un’opera innovativa e di grande respiro (l’ho letto in france se, con una certa fatica) che potrebbe interessare tutti, sem plici lettori, appassionati e storici, anche per il fatto di rappre sentare un punto di vista diverso e “fuori dal coro”. Ma forse è proprio per questo che viene snobbato. Sempre nel merito dei rapporti fra studiosi al tempo della guerra fredda il giova ne storico goriziano Riccardo Cecovini, autore di uno studio sulla strada romana Aquileia-Emona (via Gemina) ha recente mente affermato: “Il tema che ho trattato è ancora poco co nosciuto soprattutto a causa del confine e delle contrapposi zioni politiche e ideologiche che hanno fatto tabula rasa della storia antica. A livello di studi storici c’è molto materiale in Slovenia, poco in Italia, e soprattutto manca uno studio com plessivo di questa importante strada, uno sguardo a volo d’uccello. Bisogna dire che accanto ai nazionalismi del Novecento e al confine, conta anche la difficoltà delle traduzioni. Conoscendo anche un po’ di sloveno io cerco di fare questo lavoro. Almeno ho iniziato a farlo”. Poi mi sono imbattuto in un libro davvero insolito, in cui Raffaella Paluzzano intervista Gilberto Pressacco dal titolo “Viaggio nella notte della chiesa di Aquileia” (Gaspari editore, 1998), e che ha per tema gli studi di questo sacerdote friulano riguardanti le origini del cri stianesimo aquileiese. Sulle prime un tema del genere può apparire ostico o troppo specialistico ma questa lettura sin dall’inizio si rivela appassionante anche per chi non è addetto ai lavori, come chi scrive per esempio. Innanzitutto perché Pressacco accompagna il lettore nelle sue sorprendenti inda gini sul territorio friulano-aquileiese, ricchissime di scoperte, di rimandi culturali e di collegamenti col mondo antico e at tuale del vicino oriente mediterraneo (ma con incursioni fino in Etiopia). E poi perché in questo libro vengono ribaltate vecchie concezioni e aperti nuovi orizzonti di ricerca su Aquileia cristiana e sull’identità friulana. Successivamente ho conti nuato le mie ricerche consultando attentamente l’opera mo numentale di Gilberto Pressacco edita di recente in più volu mi intitolata “L’arc di San Mare” (in lingua friulana l’are di San Mare è l’arcobaleno), Forum 2013, Editrice Universitaria Udi nese. Non solo per me, che non sono religioso, è motivo di interesse considerare questa schiera di studiosi (e di sacer doti) che per amore del sapere ha sfidato e continua sfidare l’establishment cattolico il quale, per parte sua, non ha man cato di ostacolarli (fin che erano in vita). Ed è anche molto interessante fare un confronto fra chi ritiene che la ricerca storica sia possibile solo in presenza di “prove” certe (docu menti, opere, dati, ecc.), inconfutabili, e chi invece, come i nostri, costruisce scenari possibili in base a indizi, “spie”, as sociazioni di idee o altri elementi che vengono fatti interagire fra di loro. Un po’ come succede mettendo insieme le varie tessere di un puzzle. Faccio solo un’osservazione in proposi to: sicuramente la storia recente così come la conosciamo, documentata da fotografie, filmati, giornali, tv e internet rien tra appieno nella prima ipotesi, mentre la storia antica abbisogna di maggiori approfondimenti, uso di associazioni, indi zi, ecc. Sulle origini del cristianesimo ad Aquileia non esistono documenti scritti ai quali attingere informazioni attendibili, per cui la chiesa attuale ha ritenuto e ritiene tuttora di uniformar ne la nascita nell’ambito e secondo i crismi del cristianesimo sviluppatosi da Roma soprattutto con l’opera evangelizzatri ce di San Paolo. In anni recenti invece quel gruppo di studio si ha ipotizzato un’origine del cristianesimo aquileiese prove niente da Alessandria d’Egitto, città con la quale Aquileia intratteneva intensi traffici marittimi (commerciali, culturali; il viaggio tra i due porti aveva una durata di una dozzina di gior ni) e da cui si diffonde invece la missione evangelizzatrice di San Pietro insieme a San Marco. Nella metropoli egiziana, patria dell’ellenismo, anche un tipo di cristianesimo legato all’ebraismo aveva messo radici profonde dando vita a dibat titi dottrinari, sette e scismi fra studiosi e teologi come Orige ne o Filone d’Alessandria e, ma più tardi, alla vicenda tragica della scienziata “pagana” Ipazia (nota oggi anche per un re cente film di successo su di lei). Il primo studioso a formulare una simile ipotesi negli anni Sessanta del secolo scorso è stato mons. Guglielmo Biasutti, a lungo direttore dell’Archivio arcivescovile di Udine. È stato lui a ricevere l’allora giovane ricercatore torinese Carlo Ginsburg che in quell’archivio avrebbe poi trovato nelle migliaia di fascicoli dell’Inquisizione friulana là conservati le storie dei Benandanti, gli stregoni “buoni” che di notte combattevano contro quelli “cattivi” per difendere i raccolti, e quella del mugnaio Menocchio raccon tata nel libro “Il formaggio e i vermi”, opere entrambe tradotte e conosciute in tutto il mondo. Nelle sue ricerche sul territorio friulano Biasutti ha evidenziato l’esistenza di una ventina di chiesette o di ancone votive dedicate a Sante Sabide, una santa nota solo in Friuli (Santa Sabata, un femminile di saba to). Secondo Biasutti questa Santa friulana rappresenterebbe ciò che rimane di un’epoca lontana in cui nelle campagne aquileiesi il giorno di festa non era la domenica ma il sabato, secondo la tradizione giudeo-cristiana alessandrina, una tra dizione documentata e in uso in Friuli fino al XVII secolo. Que sta, insieme ad altre interessanti riflessioni, è solo una delle numerose tracce che il sacerdote archivista mette in eviden za nei suoi studi e nelle sue poco diffuse pubblicazioni. Egli giunge a ipotizzare anche un trasferimento nell’Alto Adriatico, in Friuli, di adepti di una qualche comunità alessandrina alla ricerca di una terra più accogliente, di un riparo per fuggire dai turbolenti e sanguinosi contrasti dottrinali all’ordine del giorno nella metropoli egiziana. Successivamente sulla base degli “input” di Biasutti, il musicologo don Gilberto Pressacco (ma anche storico, teologo, antropologo, linguista, come vedremo) ha proseguito le ricerche su questo tema racco gliendo un’impressionante mole di indizi, associazioni, colle gamenti fra la vita religiosa ad Alessandria e quella che si sarebbe poi svolta ad Aquileia e più in genere nelle campa gne friulane. Ma vediamo come inizia questa entusiasmante ricerca che per i suoi aspetti particolari merita di essere rac contata così come si desume dai libri e dalle pubblicazioni di questo sacerdote. Approfondendo alcune sue ricerche in campo musicologico in una biblioteca vaticana a Roma, Pressacco si imbatte in un vecchio libro di uno specialista in materia nel quale legge tra l’altro una nota che lo fa riflettere molto, e cioè che la prima notizia riguardo al cosiddetto “canto in due cori” si trova nell’opera “De vita contemplativa” del filosofo ebreo Filone d’Alessandria del 40 d.C. Quella nota riporta alla mente del sacerdote friulano un’altra informazione simile, che aveva attinto anni prima consultando un fascicolo processuale del Tribunale dell’Inquisizione di Aquileia nell’Archivio arcivescovile di Udine (un’importantissima fonte di sto ria friulana, come è ormai evidente). Si trattava di una lettera di denuncia all’inquisitore del 1624 scritta da un prete di Pa lazzolo dello Stella il quale si lamentava che un gruppo di uomini e donne del suo paese, secondo una radicata super stizione, la notte del sabato di Pentecoste andava in proces sione in paese e nella campagna circostante cantando “in due cori” una canzone che si chiamava Schiarazzola Maraz zola, sotto la guida concitata di una donna di nome Maria Alessandrina (nome quanto mai significativo). Un canto “a due cori”, un botta e risposta, da parte di due gruppi che cantano, ballano e dialogano simulando una battaglia nottur na con rami e bacchette di legno ingaggiata fra spiriti buoni (benendanti) e cattivi (streghe e demoni) per salvare i raccolti. È proprio lo stesso rito descritto dallo storico Carlo Ginsburg nel suo famoso libro “I Benandanti”. Pressacco individua poi l’origine delle parole che formano il titolo di quella canzone: carax, che significa canna in greco (ma anche scjaraz, in friu lano vuol dire canna) e marath, in greco finocchio (la famosa piana di Maratona in greco sta per Valle dei finocchi). Canna e finocchio quindi, le “armi” con cui si combattono stregoni buoni e cattivi. Ma ritorniamo al “De vita contemplativa” di Filone d’Alessandria. In questo libro è descritta la vita asceti ca della comunità religiosa giudeo-cristiana dei Terapeuti, che aveva la sua dimora nei dintorni di Alessandria (preferiva no la campagna alle città, considerate corrotte). Questa co munità è nominata anche da altri storici e uno di essi, Eusebio di Cesarea, menziona i Terapeuti come gruppo “cripto-cri stiano” fondato da San Marco. Fra la preghiera, la contem plazione e le altre attività, essi usavano riunirsi il sabato, can tando e ballando “in due cori”, riti che avevano il loro apice la notte di Pentecoste. Come avveniva in quelle processioni a Palazzolo dello Stella. È possibile che fra le due esperienze, anche a distanza di tanto tempo “sia ravvisabile un comune substrato religioso e culturale tra tradizioni, spesso sommer se, attestate in alcune regioni del Mediterraneo”, dice Pres sacco, e che l’antica leggenda dell’arrivo ad Aquileia di San Marco trovi riscontri in moltissimi dati e situazioni tutt’altro che irrilevanti. Questa dunque la tesi di Pressacco: l’eredità della missione evangelizzatrice marciana del cristianesimo aquileiese si è conservata nei secoli nella campagna friulana dove ha lasciato segni profondi e persistenti nella memoria popolare anche dopo l’assimilazione della chiesa di Aquileia a quella di Roma. Quindi la ricerca di Pressacco si concentra sulle tracce di elementi riscontrabili sia nella comunità di Te rapeuti di Alessandria sia in ciò che nel territorio friulano avrebbe giustificato un loro trasferimento nell’area alto adria tica. Secondo la descrizione di Filone i Terapeuti prediligeva no insediamenti ricchi di acque dolci, anche per i loro riti, come nella zona situata accanto a un lago nelle vicinanze di Alessandria, nella quale avevano iniziato la loro esperienza comunitaria. La Bassa friulana con la caratteristica presenza delle numerosissime acque di risorgiva era per loro un sito
ideale. Fra l’altro, sulle rive dei corsi d’acqua di risorgiva, cre sce la pianta dell’issopo, usata dai Terapeuti, la canna e il fi nocchio come abbiamo visto, ma anche piccoli fiori rosa chiamati in friulano con il significativo nome di marculine. Come si può notare, Pressacco rivolge le sue ricerche all’ori gine dei nomi propri, dei nomi dei luoghi, delle manifestazioni della cultura popolare friulana e in particolare del cristianesi mo primitivo conservatosi nelle campagne. Come la diffusio ne della Sante Sabide, come sopra evidenziato. E così la pa rola friulana macor, che sta per l’italiano rozzo o rustico, deriva da Ermacora, primo vescovo di Aquileia designato da San Marco, ma anche da maqor, parola ebraica che vuol dire fonte, sorgente, con preciso riferimento alla purificazione (an che in senso terapeutico) per mezzo dell’acqua che sgorga limpida dalla terra. Si arriva quindi alla formulazione del concetto di “rusticitas” (rusticità) quale aspetto identitario di un cristianesimo popolare conservatosi nelle campagne in op posizione a quello ufficiale sviluppatosi nelle città (Aquileia, Cividale, Concordia, ecc.). Il classico contrasto fra città e campagna. Un’altra interessante riflessione di Pressacco ri guarda il termine borboròs che in greco significa inferno o luogo pauroso e in friulano ha il medesimo significato (usato un tempo come spauracchio per i bimbi). Anche Socrate quando parla del suo destino dopo la morte accenna ai Cam pi Elisi da un lato e al borboròs dall’altro. È lo stesso motivo per cui si può spiegare il bellissimo mosaico in tre scene de dicato al profeta Giona nella basilica di Aquileia e la grande rilevanza riservata dai primi cristiani aquileiesi a questa piuttosto singolare storia biblica. La ricordo sinteticamente qui di seguito. Dio scelse come suo profeta un uomo chiamato Gio na. Un giorno Dio disse a Giona di andare a Ninive per avver tire gli abitanti che dovevano smettere di comportarsi male. Ma Giona ebbe paura di recarsi in quella città straniera, fuggì e si imbarcò su una nave. Quando la nave fu in mare, si sca tenò una tempesta. Giona capì che la causa della tempesta era proprio lui e chiese ai marinai di gettarlo in mare per salvare la nave. I marinai al colmo della paura eseguirono la sua richiesta e di colpo la tempesta si placò. In mare Giona venne inghiottito da un grosso pesce (o una balena o un mostro marino, come nel caso del mosaico aquileiese) e rimase nel suo ventre per tre giorni e tre notti, poi venne rigettato vivo sulla spiaggia. Così poté finalmente riposare sotto una pianta cucurbitacea (una zucca o un cetriolo). La storia di Giona ri chiama la passione di Gesù e la sua discesa negli inferi, nel borboròs. Ma il senso delle vicissitudini del profeta Giona sa rebbe la “conquista” del riposo, ovvero la salvezza “universa le” (secondo Origene), degli uomini di tutte le nazioni, non solo degli ebrei ma anche dei “peccatori” abitanti di Ninive, tutti degni del riposo eterno. L’“arc di San Marc”, nome friulano dell’arcobaleno, è il segnale che Noè vede comparire all’orizzonte alla fine del diluvio universale, e che rappresenta e indica quella agognata redenzione. Tutte interessanti inter pretazioni suffragate da tanti piccoli e grandi indizi messi a confronto, di cui qui ho riportato solo alcuni aspetti, che dan no appena un’idea del vasto affresco storico e antropologico dell’identità e della cultura friulane tracciato da Gilberto Pres sacco. Ma un altro grande passo avanti nella direzione indi cata da Biasutti e Pressacco viene compiuto alle soglie del 2000 da uno studioso di Aquileia, il professor Remo Cacitti…
E la ricerca continua…