
UN CONFINE CHE NON C’È PIÙ
di LUCIO FABI
Al turista che arriva a Nova Gorica/Gorizia Capitale europea della Cultura stupito di non trovare la nota rete di confine in una piazza Transalpina/Evrope rifinita di fresco, non resta che volgere lo sguardo alle due città, sorellastre più che gemelle. Novella Eva, Nova Gorica nasce da una costola della città vecchia, non per volere del Creatore ma del contesto internazionale del 1945-47, non particolarmente tenero con chi aveva perso la guerra.
Sul monte dove tanto si combatteva più di cent’anni fa, una grande scritta in pietra inneggia a Tito, non quello della romanità, ma il maresciallo comunista che condusse l’esercito jugoslavo a sconfiggere nazisti e fascisti che gli avevano invaso casa. È brutto dirlo ma è così. E il sindaco di qua, a cui la scritta non piace, si consola ricevendo ufficialmente gli eredi di quelli che all’epoca erano nemici della Repubblica. Tuttavia, piuttosto che togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini, come molti vorrebbero, si potrebbe darla anche a Tito. Uno a uno e palla al centro.
Sul colle cittadino il Castello falso veneziano affronta bellicosamente la scritta molesta, spalleggiato a distanza dalla torre dell’Ossario di Oslavia, sacro contenitore simbolo della sanguinosa guerra del 15-18. Dall’altra parte della vallata, impossibile non vedere la torre moresca di Cerje, dedicata alle guerre vittoriose del popolo sloveno (1914-18, 1941-45, 1991), ribattezzata chissà perché “alla Pace”. A mettere le cose a posto il santuario di Monte Santo, simbolo di religiosità per sloveni e italiani, un “volemose bene” a 360 gradi.
Con la rigenerata stazione della Transalpina si potranno agevolmente raggiungere gli stupendi dintorni sloveni, la valle dell’Isonzo, le montagne e i laghi, mentre Gorizia il sabato e la domenica avrà finalmente un collegamento diretto e veloce con Mestre. Rimanendo in città, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Tante mostre, da Ungaretti ad Andy Warhol ai matti di Basaglia, dal museo del Confine a quello del Contrabbando, della Moda e della Guerra (sempre del 14-18, ovvio) per non dire, di là, del Museo di Kromberk o del costruendo Epik, che dicono promette bene. All’aperitivo nella bella piazza Vittoria con la chiesa a cipolloni si può abbinare la sosta nel moderno centro di Nova Gorica, dove si ha l’impressione di essere in un non luogo condito da ardite strutture architettoniche e da esempi di edilizia popolare comunista, disegnati dall’architetto padre della città, presto disdegnati da chi aveva la possibilità di andare ad abitare in casette singole. Così, mentre la Gorizia vecchia rimane ancorata a una struttura edilizia otto-novecentesca a forma allungata prodotta dal felice arrivo della ferrovia Meridionale (1861), dagli anni 70 dell’altro secolo la Gorizia nuova prova a modificare il suo aspetto aggiungendo via via diverse forme abitative, come la cosiddetta “Muraglia cinese” o i grandi caseggiati sghembi a corollario di frequentati centri commerciali e casinò.
Dalla città del peccato alla città della cultura, un bel salto, riuscito, per Nova Gorica. Non si può dire lo stesso di Gorizia, città di cultura plurisecolare, con i suoi celebrati Isaia Ascoli e Michelstaedter e la sua proclamata multiculturalità asburgica e borghese, “bella addormentata” da tempo per quanto riguarda traffici e commerci, con una popolazione in calo dall’età media di 50 anni, la più alta in Italia e forse in Europa. Una città anziana, conservatrice, attorniata da monumenti ed emblemi che inneggiano alla guerra vittoriosa del 15-18, ma tacciono sulle storture del periodo fascista, che in pratica cancellò la Gorizia multilingue dei secoli precedenti, sostituita da un nazionalismo spinto all’eccesso, schiacciante nei confronti della minoranza slovena presente in città. Dall’altra parte, la più giovane Nova Gorica, ripopolata da ogni dove negli anni ’50-60, esibisce svariati segni della vittoriosa guerra di liberazione jugoslava, busti e statue ovunque, evidenti al centrale Municipio, sorto al posto dell’antico cimitero, ideale punto di raccordo tra la città moderna e l’insediamento edilizio dei cosiddetti “Blocchi russi”.
Nostalgie sanguinose di segno opposto, ancora un poco presenti in due città brutalizzate dalle guerre, che oggi cercano di incontrarsi in pace. Del resto, già lo si faceva dagli anni Sessanta, mentre l’Europa sperimentava la Guerra fredda. Il confine non fu mai una barriera, se non per quelli che lo concepivano così. Accordi internazionali e locali fra Italia e Jugoslavia permettevano circolazione ampia e scambi proficui, benzina, carne e tabacco a buon prezzo contro jeans, utensili e cose che nel paradiso comunista non si trovavano. Cresceva già allora una proficua collaborazione transfrontaliera, favorita da amministrazioni lungimiranti, istituzioni e personaggi di cultura a cui noi oggi dobbiamo gratitudine e riconoscenza, da una parte e dall’altra di un confine che ormai non c’è più.