
CHI VUOLE DAVVERO LA CANCEL CULTURE?
di ANNA DI GIANANTONIO
Francesco Fain nel suo articolo del 4 settembre su “Il Piccolo” ricorda la proposta di Dario Stasi, e del giornale che dirigeva, rinato quest’anno, di utilizzare la galleria Bombi per creare un museo del’900. Indicando l’esempio del tunnel di Piedicastello a Trento, Stasi proponeva di creare dei pannelli che mettessero in evidenza le tappe salienti del secolo che chiamavamo “secolo lungo” e non “breve”, come invece lo aveva definito lo storico Hobsbawn, perché da noi la lunga guerra fredda è durata molto a lungo. Il sindaco Ettore Romoli era d’accordo, ma il progetto non andò in porto. Evidentemente le proposte vengono bocciate non perché non siano razionali, ma perché fatte da soggetti le cui posizioni politiche non collimano con quelle della maggioranza. Stessa sorte toccò alla richiesta di utilizzare le casette dismesse ai confini per farne piccoli luoghi di esposizione e di approfondimento didattico per le scuole (poi una venne utilizzata al Rafut grazie all’impegno dell’associazione 4704 ma come luogo a sé, senza un progetto generale di utilizzo e di sviluppo storico).
Eppure è proprio la storia del ‘900 che per il turista, lo studioso, il giovane è la più interessante. Le guide turistiche hanno chiesto all’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea un nuovo corso, dopo quello svolto lo scorso anno, proprio per approfondire il XX secolo a Gorizia, nell’ultima edizione del festival èStoria i ragazzi della Consulta hanno chiesto un approfondimento sulla storia della città nel secondo conflitto, mentre anche l’editore Laterza mostra interesse per i temi del confine, pubblicando volumi come quelli di Raoul Pupo e Fabio Todero e un gruppo di storici, coordinato da Carlo Greppi e Chiara Colombini, cita la battaglia di Gorizia del settembre 1943, primo scontro operaio di massa contro i nazisti in Italia, nel libro Storia internazionale della Resistenza italiana della stessa casa editrice. E sono solo alcuni esempi di questo interesse per il confine “orientale”.
L’occasione della capitale della cultura era quella giusta per una riflessione sul lungo Novecento goriziano e sulle sue caratteristiche. Poteva diventare un momento di discussione su come la città era arrivata a questa importante tappa, cercando di conoscere il periodo della guerra fredda, che in città aveva condizionato pesantemente e in senso nazionalistico lo sviluppo economico, la struttura urbanistica, gli interventi a favore della povertà, della scuola, la legge di tutela e la costruzione della memoria collettiva. Si è percorsa invece un’altra strada: quella della valorizzazione di aspetti come lo sport, la musica, lo spettacolo, l’ambiente, l’enogastronomia.
La volontà è stata quella di andare avanti, di mettere sotto traccia i problemi del passato per guardare al futuro. Ma è davvero così? Se questa fosse la sincera intenzione politica, essa avrebbe una sua ragione. Rivangare il passato può essere doloroso e divisivo. Ma ci sono almeno due elementi che fanno pensare piuttosto ad una volontà selettiva di affrontare la storia. Prima di tutto la mancata revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini, che è un gesto simbolico che non cancella affatto il passato ma rifiuta l’omaggio al dittatore fascista e alle sue politiche nei confronti degli sloveni. La revoca avrebbe significato un ripudio definitivo del fascismo e la consapevolezza, pubblica e legittimata dal Comune, di ciò che il regime aveva prodotto in questo territorio. Non solo l’impedimento della lingua slovena e la repressione degli antifascisti, ma anche il trasferimento forzato di decine di insegnanti e impiegati, l’esproprio della terra e l’incameramento dei beni degli agricoltori sloveni e la loro rovina economica, l’appropriazione degli istituti di credito degli “allogeni” e avrebbe dimostrato la lunga continuità della classe dirigente locale prima fascista e poi transitata nella nuova repubblica democratica. Una presa di coscienza che non si vuole affrontare.
L’altra questione importante è il fatto che non si agisce perché nella scuola pubblica venga insegnato lo sloveno, nemmeno a livello facoltativo, come invece avviene in Val d’Aosta per il francese e in Trentino per il tedesco. Quale considerazione abbiamo per la lingua del vicino e per la comprensione linguistica delle due parti della città?
Come si può dunque sostenere di voler superare il passato gravati da pesanti e antiche zavorre che non si vogliono rimuovere?
Articolo originale in Italiano.