Di Paola Barban

UN CONFINE ANCORA PRESENTE IN PROVINCIA DI GORIZIA: MONFALCONE MULTIETNICA

UN CONFINE ANCORA PRESENTE IN PROVINCIA DI GORIZIA: MONFALCONE MULTIETNICA

DI PAOLA BARBAN

 

Oggi Monfalcone è oggetto della cronaca nazionale e inter nazionale per varie questioni legate alla forte presenza di im migrati: il mancato campo di cricket, i centri islamici oggetto  di una diatriba legale ancora in corso ed altre vicissitudini  aperte sulla mancanza di regole per la reciproca convivenza. Prima di entrare nel merito dell’attualità, ricordo il testo “Mon falcone al futuro”, curato dal sociologo Alberto Gasparini nel  1999, dove si evidenzia la marginalità della città nella sua storia: lontana e poco difesa da Venezia, altrettanto distante dal le popolazioni venete dell’Istria, attorniata da aree di lingua  tedesca della Mitteleuropa asburgica. Una terra povera e di  confine oggetto di emigrazione, ma con l’avvio dello sviluppo  industriale a cavallo tra ‘800 e ‘900 (Solvay, Cantiere Navale  Triestino) anche di immigrazione: inizialmente di popolazioni  vicine, friulani, sloveni, triestini, istriani, poi dall’Italia meridionale e oggi da molte parti del mondo (nel cantiere risultano lavoratori di almeno 67 nazionalità diverse). Questa storia particolare ha determinato un’identità debole, con tante  comunità che nei diversi periodi storici sono state accolte e  integrate dai bisiachi locali. Alla fine questa società debole e  frammentata ha trovato un comune denominatore nel grande  cantiere, che nei primi anni del ‘900 è un modello che – nel  villaggio operaio di Panzano – organizza ogni momento della vita dei lavoratori e delle loro famiglie e anticipa lo stato  sociale, con alloggi per operai/impiegati/dirigenti, impianti  sportivi, ambulatorio, teatro, scuole: ma poi attraversa crisi  e trasformazioni. Oggi il cantiere non svolge più un ruolo di  riferimento per la comunità ma è qualcosa di ingombrante e  forse per ora insostituibile. 

Della fabbrica di grandi navi si è occupato di recente il mensile “Altreconomia” e l’ha descritta Fabio Querin, già dipendente Fincantieri oggi segretario della CGIL metropolitana di  Venezia: “Ormai Fincantieri è poco più di un marchio, i dipendenti diretti si limitano a controllare e fornire supporto, pochissimi sono in produzione: questa è appaltata a centinaia  di aziende esterne”, afferma commentando il processo avviato nel giugno 2023 al tribunale di Venezia sulle irregolarità  nei contratti di lavoro nel cantiere veneto. L’esternalizzazione  oggi riguarda anche la realizzazione dei disegni delle navi, un  tempo fiore all’occhiello degli ingegneri navali della Fabbrica. 

Il problema non riguarda solo Fincantieri ma l’intero comparto industriale isontino, gestito dal Consorzio di Sviluppo  economico della Venezia Giulia, presieduto da un goriziano:  ha favorito nuovi insediamenti con opere di urbanizzazione,  consolidando la vocazione esclusivamente industriale del la città, ma ha riservato scarsa attenzione alle esigenze dei  nuovi lavoratori in termini di servizi, senza fornire sostegno  all’ente locale. 

Eppure la storia industriale di Monfalcone ha lasciato profonde cicatrici, dalla tragedia dell’amianto alle emissioni della  centrale elettrica a carbone. L’Amministrazione comunale si  era impegnata a proseguire gli studi sull’incidenza dei tumori  nell’area ma oggi l’argomento non è più all’ordine del giorno.  In questi anni non c’è stata nemmeno una nuova visione territoriale e non è stata pianificata una nuova Variante Generale  del Piano regolatore Comunale, perché di fatto la città è ancora organizzata dal Piano del 2001. 

Da parte sua il Comune lamenta il peso dell’immigrazione  sul sistema scolastico, quello sanitario (gli accessi record al  Pronto soccorso dell’Ospedale) e sul welfare, con gli aiuti basati sull’ISEE alle famiglie numerose e a basso reddito, che  inevitabilmente sono indirizzati in grande percentuale ai nuovi  arrivati. A questo aggiunge una battaglia in difesa dell’identità  locale e contro la religione islamica. 

Su quest’ultimo aspetto, però, le contraddizioni non mancano. 

Scrive Sigfrido Ranucci nel suo libro “La scelta”: “In Italia il  Qatar in questi anni è diventato partner dell’industria militare.  Un partner sdoganato anche dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Matteo Salvini che però, ancora nel 2017, accusava il Qatar di finanziare gruppi terroristici. La preoccupazione era tale che la Lega aveva preparato un disegno di legge  per bloccare o limitare i finanziamenti qatarioti per costruire  moschee e centri per la tutela dell’identità mussulmana nel  nostro paese. Poi arriva il 2018 e i timori svaniscono quando si materializzano le prime commesse di armi. Tra il 2018  e il 2019, periodo del primo governo Conte, l’Italia vende a  Doha 7 navi da guerra prodotte da Fincantieri per 4 miliardi  di euro, (…) a maggio 2023 trapelerà la notizia di un accordo Italia-Qatar per costruire dei sommergibili nani strategici”  (“La scelta” Sigfrido Ranucci, Giunti-Bompiani overlook 2024  pag.286). 

Di fronte a questo dibattito addirittura internazionale sulle  sorti della cittadina, proviamo a coinvolgere su questi temi  due persone al di là e al di qua del confine: l’una residente in  un piccolo Comune vicino e che lavora a Monfalcone (Extra  moenia) l’altra abitante e occupata in centro a Monfalcone  (Intra moenia).

 

 

Intervista a un residente extra menia

 

 

C’è bisogno della Fabbrica delle grandi  navi? 

E’ notizia di questi giorni che Fincantieri vuole costruire navi  passeggeri ancora più grandi per i maggiori operatori mondiali del settore delle crociere, quindi ha progetti industriali  sempre più ampi, con ulteriore bisogno di manodopera, qui  si tratta di una questione di scelte imprenditoriali. Se Monfalcone e la Regione FVG vogliono godere dei vantaggi portati  dalla presenza del grande cantiere, devono anche confrontarsi con gli svantaggi determinati dai problemi di integrazione delle molte persone che lavorano a Monfalcone. Oppure  vogliamo rinunciare a Fincantieri e cosa comporterebbe?

Noi abbiamo avuto il ‘68 con le conquiste  civili di quegli anni, il divorzio, l’aborto,  lo statuto dei lavoratori, ecc. e adesso si  dice che gli immigrati ci riportano indietro di 60 anni rispetto a questi nostri progressi sociali?

Se si parla di regressione in fatto di diritti civili, però, gli italiani  se la cavano benissimo da soli. Assistiamo a un arretramento  sui diritti civili, su quelli del lavoro e del sociale, ad esempio  sulla sanità pubblica, che non dipende dalla presenza degli  immigrati ma da scelte economiche globali che indirizzano le  politiche dei singoli stati. 

Se davvero gli immigrati da alcuni paesi del Sud del mondo sono in ritardo di 100 anni rispetto al nostro modello di  vita (che non è detto che sia migliore del loro), è anche vero  che vivono una forte accelerazione, per cui quei cent’anni li  possono colmare in pochi decenni. Tempi che comunque rimangono troppo lunghi per i nostri politici, ormai abituati ad  una prospettiva di pochi mesi tra un’elezione e l’altra. Buona parte della nostra classe dirigente ha una età anagrafica di  60-70 anni, difficilmente possono programmare scelte che  probabilmente non faranno in tempo a vedere. Questo è il futuro e va governato e gestito, stabilendo delle regole comuni.  Se l’immigrato si confronta con una società in cui prevale la  furbizia sulla competenza e l’aggiramento delle leggi è la norma, si adegua alla nuova situazione. In una realtà che rispetta  le regole è più facile che chi arriva le rispetti anche lui. 

Frequentare Monfalcone provoca disagio, perché vi troviamo una situazione  alla quale non siamo abituati?

Noi cerchiamo la nostra comfort-zone, dove ci sono le nostre  consuetudini, la normalità che molti hanno ritrovato nei paesi  della Bisiacaria (Staranzano, Ronchi, San Piero, San Canzian,  Turriaco ecc.), mentre a Monfalcone si è creato un contrasto  tra modi di vivere degli uni e degli altri. Non sono abitudini  migliori o peggiori ma diverse e da qui deriva il disagio. Se  cerchiamo degli amici li troviamo tra quelli che condividono  con noi interessi e affinità, senza che siano migliori o peggiori  di altri.

Una cosa brutta e una bella di Monfalcone?

La cosa brutta è che non c’è più la vita che c’era una volta  nelle strade, nei negozi e nei locali, Monfalcone aveva una  vivacità che costituiva un’attrazione e un punto di riferimento  da parte di tutti i paesi vicini. 

La cosa bella… a me piace tanto il Carso di Monfalcone!

 

Intervista a un residente intra menia

 

Perché resti ad abitare a Monfalcone e  non fai come i molti che si sono presi la casetta nei Comuni limitrofi della Bisiacaria alla ricerca di una loro comfort  zone?

Rimango a Monfalcone perché offre molti servizi, teatro, cinema, stazione ferroviaria, vicinanza all’aeroporto ed al mare.

Che impatto ha la comunità bengalese  sulla città?

La comunità bengalese è essenzialmente povera ed ha esigenze che il nostro tessuto commerciale non comprende, i  commercianti non hanno saputo adeguarsi alla nuova situazione. Sono stati aperti molti negozi etnici, che propongono  un’offerta di bassa qualità, sia nel vestiario sia negli alimentari, quindi per il consumo della sola comunità bengalese e  non aperti al consumo locale. La comunità bengalese quindi  attiva scarsamente il commercio e partecipa alla vita economica della città in maniera marginale. Inoltre viene da una  realtà molto diversa. Con l’aumento del numero di stranieri a  Monfalcone è cresciuta la percentuale di famiglie povere, la  distribuzione dei redditi, che già presentava elevati livelli di  disuguaglianza, ha visto un allargamento della distanza tra  più e meno abbienti; la Fincantieri ha utilizzato in questi de cenni manodopera straniera al fine di alimentare lavori poco  qualificati e usuranti ed i contratti precari e sottopagati hanno  contribuito alla marginalizzazione di questi lavoratori. I bengalesi vivono una condizione di marginalità e spesso anche i  figli, seppur più vicini ai ragazzi italiani, soffrono di gap importanti e faticano ad emanciparsi dalla condizione di partenza.

Si può dire che chi è rimasto a Monfalcone ha una mentalità più aperta alle altre  realtà?

No, a Monfalcone sono rimaste soprattutto persone anziane,  che non possono spostarsi. Altri sono arrivati perché il costo della casa a Monfalcone è fortemente diminuito ed è più  basso rispetto ai Comuni del circondario (mentre rimangono  molto alti gli affitti). Alcuni giovani, singoli o coppie, stanno  scegliendo Monfalcone proprio per il costo delle case, decisamente più basso anche solo della vicina Ronchi, ma sono  ancora casi isolati e non si può parlare di una controtendenza. In generale Monfalcone appare una città affetta da depressione; nonostante l’offerta di servizi, le società nautiche e  sportive, tutto questo non basta a togliere alla città quest’aura di depressione, un generale abbassamento della qualità  della vita.

E’ vero che anche nelle scuole si è registrata una grande fuga degli italiani verso i paesi limitrifi o addirittura nella vicina Slovenia?

Sì, nelle scuole dell’infanzia, elementari e anche alle secondarie di II grado fino al biennio, mentre dopo l’età dell’obbligo molti studenti stranieri abbandonano. Questo fenomeno  dell’abbandono scolastico a 16 anni è più marcato nelle femmine, che in molte famiglie sono destinate a rimanere in casa,  a sposarsi molto giovani ed avere figli; per molte ragazze non  esiste una futura attività lavorativa e sono poche quelle che  proseguono, destinate a lavori modesti, ad esempio di pulizie. La situazione è particolare e non ha uguali nelle altre  realtà del territorio. 

Il fenomeno dei bambini monfalconesi iscritti all’asilo nella  cittadina slovena di Merna non dipende dalla presenza dei  bengalesi, ma dal fatto che la scuola italiana non è stata ancora adeguata alla conciliazione delle esigenze lavorative e  familiari delle donne. 

Noi avevamo bisogno di braccia per il cantiere, perché chi  abita qui non manda più i propri figli in cantiere, sia per la  vicenda dell’amianto sia per il lavoro duro e poco pagato e  sperano che i loro figli intraprendano delle carriere migliori.  Nessun cantierino ha mandato i suoi figli in cantiere e ciò è  avvenuto già nella generazione precedente. Non siamo consci che nell’importare braccia abbiamo importato anche persone, con le loro famiglie, spesso numerose. 

Una domanda da porsi è se anche i bengalesi che oggi lavorano in cantiere manderanno i loro figli a fare lo stesso lavoro? Probabilmente la prossima generazione, ancora in maggioranza poco istruita per la difficoltà a seguire la scuola ita liana, andrà in cantiere, ma le successive no. I ragazzi che  frequentano le scuole secondarie sono consapevoli di quanto  sia duro e cosa offra il lavoro in cantiere, ma non hanno molte  alternative. Sognano di fare gli impiegati, ma il mercato del  lavoro richiede operai e almeno loro dovranno adattarsi. 

Come mai sono arrivati tanti immigrati a Monfalcone?

Dipende da scelte politiche di Fincantieri, prese più a Roma  che non a Trieste. La politica nazionale ha deciso che le prime gare d’appalto alla fine degli anni ‘80, dopo che la società  aveva acquisito gli ordini per le navi da crociera, dovevano  essere svolte a Roma, per dare lavoro a masse di disoccupati  presenti nel territorio nazionale, conseguentemente ci fu una  grossa partecipazione di “ditte” del centro-sud, ma il lavoro era nel “profondo nord” così con i meridionali arrivarono  i primi bengalesi. Il lavoro richiesto era di bassa qualità, i lavoratori avevano pochi diritti, le paghe erano e sono basse e  la coscienza ecologica è un lusso che i poveri non possono  permettersi.

Una cosa brutta e una bella dell’abitare a Monfalcone

Il brutto è il degrado delle case, i vari bonus edilizi sono stati  poco utilizzati in città a differenza per esempio di Gorizia e  Trieste. E’ inutile riempire le aiuole di fiori se poi il contesto  è decadente, come ad esempio circondare di fiori la fontana  dell’Anconetta se poi l’edificio di ”Visintin” è un pugno nello  stomaco per l’incuria in cui versa. Monfalcone ha marciapiedi  sconnessi, strade dissestate, un’area del Carso sporca e non  valorizzata, relitti di biciclette piantati su tutti i pali. 

La cosa bella è il fatto che – contrariamente a quanto si pensi  – una donna sola può tornare a casa anche all’una di notte  senza problemi. Ci sono bengalesi in giro a tutte le ore ma  non costituiscono una preoccupazione.