DIFETTI DI MEMORIA? NO, È LA STORIA CHE MANCA!

DIFETTI DI MEMORIA? NO, È LA STORIA CHE MANCA!

di ANNA DI GIANNANTONIO


Storia e memoria: una coppia conflittuale


Abbiamo imparato da tempo la differenza tra memoria e storia. Sappiamo che in un territorio come il nostro, attraversato da grandi lacerazioni, le memorie sono differenti, segnate non solo dalle esperienze individuali, ma dai racconti e dal vissuto dei nostri genitori e dalle nostre famiglie “allargate”: gruppi politici, partiti, associazioni che nel tempo hanno trasmesso la loro visione della storia. Molto spesso le memorie individuali confliggono e la loro condivisione è impossibile.

Ma a Gorizia succede qualcosa di particolare: l’aspra contrapposizione sulla celebrazione di alcune date e sul giudizio da dare degli avvenimenti del ‘900 riaccende ancora oggi uno scontro più intenso di quanto succede da altre parti d’Italia. A cosa si deve la maggiore aggressività? Non credo sia la presenza incombente della storia che non passa, ma esattamente il contrario: noi abbiamo poca storia e troppa memoria, o meglio siamo egemonizzati dalla memoria che una certa parte politica propone come la “vera Storia” del nostro territorio. Ciò che viene definita “storia di Gorizia” del secondo dopoguerra spesso non è altro che una memoria consolidata e rigida che possiamo ricavare da pubblicazioni, fascicoli, articoli di giornali, discorsi pubblici, scritti da alcuni protagonisti dell’epoca nel fuoco dello scontro per l’appartenenza nazionale di Gorizia. Importante è il contesto di quelle narrazioni: siamo nel periodo della lunga guerra fredda, che condizionò l’economia, l’urbanistica, la politica e la cultura per oltre 40 anni. L’immagine di Gorizia città martire, vittima incolpevole della grande storia per la quale doveva ottenere dei risarcimenti economici – che ebbe in abbondanza – è stata per anni un luogo comune creato da queste narrazioni. Il contenimento dello “slavo-comunismo” e l’emarginazione di sospette e non meglio identificate “quinte colonne” di Tito, spesso identificate con i sacerdoti sloveni, sono elementi fondamentali per comprendere le vicende cittadine. I documenti mettono in luce con chiarezza le politiche economiche e sociali adottate per difendere l’italianità dai nemici d’oltre confine.


Siamo stati influenzati, dunque, da memorie e visioni particolari che non possono in alcun modo rappresentare tutta la ricchezza delle posizioni degli altri attori in gioco.  Carlo Pedroni, dirigente dell’attivissima Associazione Giovanile Italiana, fondata per difendere l’italianità della città, scrisse nel 1952, Gorizia. Cronaca di due anni. 5 agosto 1945 – 18 settembre 1947. La pubblicazione è il tentativo di una parte politica di rappresentare il sentimento e l’identità della città nel suo complesso. Pedroni racconta di Radio Giulia, una emittente radiofonica installata in via Cocevia che trasmetteva notizie locali o provenienti dal CLN di Trieste. Il 18 novembre 1945 descrive in questo modo il “Festival del lavoro”, una manifestazione organizzata dal fronte avverso “filo Jugoslavia”. Dai microfoni della radio venivano riprodotti e salacemente commentati le canzoni e gli inni dei manifestanti. Una satira ai bifolchi, agli arringapopoli, ai pionieri, alle živele (!) resistenti come le vacche che tirano i carri. (pag.26)


Linguaggio e toni aggressivi, già allora non condivisibili, che di certo non possono essere accettati nel 2004, quando il libro fu riedito dalla Lega Nazionale con questa prefazione. Questa ristampa vuole rappresentare un ringraziamento a Pedroni ed ai “giovani” di allora dell’AGI, uomini che hanno fatto la storia contemporanea di Gorizia, con l’auspicio che possa far riflettere tutti noi sui valori che qualcuno vorrebbe che tramontassero. Ma soprattutto che possa far riflettere i giovani di oggi, nella consapevolezza che solo attraverso la conoscenza della propria identità si è in grado di comprendere quella altrui e di apprezzarne le differenze. (pag. 2). Non una parola di contestualizzazione del racconto di Carlo Pedroni che usa parole inaccettabili per descrivere il “nemico”, ma un invito ai giovani a riconoscersi nella presunta identità “italiana”.


Se andiamo invece alla storia fatta sui documenti le cose sono molto diverse. Pedroni fu esponente nel dopoguerra del Movimento Sociale Italiano che si richiamava esplicitamente alla Repubblica di Mussolini. La fondazione dell’AGI, che si definiva apolitica e voleva aggregare chiunque si battesse per l’italianità di Gorizia, non avvenne il 5 agosto 1945 sulla spinta di un moto spontaneo dei giovani, animati dalla religione della patria e dal ricordo dell’irredentismo risorgimentale e prebellico, ma nel giugno 1945 o addirittura nell’aprile dello stesso anno come scrive Roberto Spazzali. Lo storico descrive l’incontro tra Primo Cresta, futuro presidente di API, l’associazione dei partigiani italiani che si contrappose a quella comunista, Candido Grassi, comandante dell’Osoppo e il segretario dell’Associazione nazionale Alpini di Udine che diedero vita alla Divisione Gorizia, il “braccio armato” di AGI, comandata dal generale dell’aeronautica Luigi Corsini. Per Franco Belci questi gruppi agivano in sintonia con l’esercito e le forze anglo americane del Governo Militare Alleato che non avrebbero tollerato la presenza di gruppi armati sul territorio privi del loro controllo. Ma Pedroni non è un caso isolato. Anche le memorie di Iolanda Pisani (Cassandra) e dello stesso Primo Cresta sono state spesso utilizzate come fossero ricostruzioni “oggettive” degli accadimenti locali. E il tutto avvenne nel quadro delle enormi somme elargite alle associazioni che facevano “propaganda di italianità”.

Intere generazioni si sono formate nel clima della guerra fredda. Emblematico quanto successe nel 1964 a quasi vent’anni dalla fine della guerra. In quell’anno ci furono scioperi organizzati dagli studenti e dall’associazione di destra Giovane Italia perché l’esponente sloveno Michele Rosi (Rosig) era stato nominato preside del Liceo Classico. La relazione fatta dai Carabinieri al Prefetto di Gorizia Princivalle sul preside è molto chiara e ripete un concetto fondamentale: Rosi Michele già noto fautore dell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia ed esponente socialcomunista”filotitino” (slavo rosso) di sentimenti antinazionali (attenta vigilanza), non poteva fare il preside di una scuola italiana. (ASG, Prefettura di Gorizia, Gabinetto 1945-1982, Legione territoriale Carabinieri Udine, Gruppo Gorizia, b.609 f.1054). Ostacolare la legalizzazione delle scuole slovene, immettere nei suoi ranghi insegnanti italiani che conoscessero in qualche modo la lingua, impedire l’iscrizione e la frequenza dei cittadini sloveni che avevano optato per l’Italia e non dovevano iscriversi alla scuola slovena, fu un tema dirimente in città, così come fondamentale interesse delle classi dirigenti fu l’apertura di doposcuola, asili, scuole per l’infanzia, colonie organizzate dalla Lega nazionale e da enti come l’ONAIRC che avevano lo scopo di difendere e diffondere la cultura italiana.


La narrazione dominante dovrebbe essere decostruita da una seria analisi storica a partire da alcune domande: come si costruiscono le identità? Si fondano su sentimenti di appartenenza, idee e aspirazioni o anche su elementi concreti come la possibilità di sopravvivere in un contesto di mancanza di alloggi, disoccupazione, miseria leniti solo dai sussidi provenienti da Roma? E come si intrecciano questi fattori nella costruzione dell’identità? Gli studi andrebbero comparati con quanto succede oltre confine. Di quali elementi si compongono le identità di chi vive a Nova Gorica? Cosa ha rappresentato per gli sloveni il confine?


La possibile eredità di Nova Gorica/Gorizia capitale della cultura.


La storia comune del territorio in cui viviamo ha bisogno di Istituti di ricerca che lavorino insieme con competenze di vario genere. Storia, antropologia, economia, psicologia, sociologia sono discipline che possono concorrere allo studio della formazione delle identità all’interno di un contesto storico politico che su di esse incide. Molti passi in avanti sono stati fatti, soprattutto per quanto riguarda il periodo del fascismo e della Resistenza. Si tratta di andare avanti e comprendere cosa è successo dopo, intrecciando le vicende in un quadro complessivo che comprenda la storia di italiani e sloveni. Potremmo così capire meglio quanto è successo l’8 febbraio 2025 quando la fiumana di gente commossa che festeggiava la fine di una separazione durata 80 anni ha testimoniato la gioia di vivere in un territorio unico. Compito delle istituzioni è adeguarsi a questo sentimento genuino cercando di costruire una storia comune, dove le differenze siano analizzate e comprese con un atteggiamento lontano dalle recriminazioni e dai lamenti. La storia che pure non è mai neutra deve essere guidata dal desiderio autentico di costruire e diffondere la pace a partire dalla conoscenza reciproca. Più di vent’anni fa la Relazione della commissione mista storico culturale italo-slovena aveva fatto un passo in questa direzione. Sta a noi continuare quell’indispensabile percorso.