
GENOCIDIO DI SREBRENICA – TRENT’ANNI DOPO
di KARLO NANUT
Lo scrittore croato Miroslav Krleža, morto nel 1981 a Zagabria, scrisse in una delle sue opere, che quando in un’osteria dei Balcani si spengono le luci, gli ospiti impugnano il coltello, come per dire che i popoli balcanici hanno un sangue bollente. Non so se ciò corrisponde del tutto alla verità, ma sicuramente quest’estate, viaggiando con la Carovana della pace Adriaticgreen, per lungo e per largo attraverso la Bosnia ed Erzegovina, ”ho toccato con mano” le ricchezze della loro cultura. Questo territorio ha subito nei vari periodi storici influenze di diversi popoli, fu occupato e amministrato da imperi bizantini, bulgari, turchi, veneziani, ungheresi, austriaci, le cui culture si sono mescolate tra le genti e conservate fino ad oggi. Ne sono testimoni i resti di fortezze bellissime: monasteri, chiese, biblioteche, ponti. Il mio viaggio si è concluso a Srebrenica, dieci chilometri dal confine serbo. Nel luglio di quest’anno ricorreva il trentesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, il più grave crimine di guerra dopo la Seconda guerra mondiale. Migliaia di civili, tra cui donne e bambini, furono massacrati dalle unità serbo-bosniache. Cosa resta oggi di quella tragedia? Le esecuzioni di massa hanno lasciato cicatrici profonde: oggi la città, che un tempo era uno dei principali centri industriali, sembra morta insieme ai suoi abitanti. A rendere il dolore ancora più insopportabile è il continuo negazionismo del genocidio che accompagna i sopravvissuti e i familiari delle vittime. La guerra scoppiò con la dissoluzione della Jugoslavia socialista, che in molti ancora oggi ricordano con nostalgia. Dopo il breve distacco sloveno da Belgrado del 1991, che anche noi goriziani abbiamo vissuto con il fiato sospeso sul confine di Casa Rossa, e poi la guerra cruenta tra croati e serbi, sostenuti dall’esercito jugoslavo (JLA), il conflitto più feroce divampò in Bosnia-Erzegovina, tra bosgnacchi (mussulmani bosniaci), croati e serbo-bosniaci. Srebrenica, piccolo centro della Bosnia orientale, divenne presto uno degli epicentri della violenza. Nel 1993, mentre le forze serbo-bosniache avanzavano, le Nazioni Unite dichiararono la città “zona protetta”. Migliaia di civili bosgnacchi vi trovarono rifugio, ma l’area era scarsamente difesa dai caschi blu. Tra l’11 e il 22 luglio 1995, le truppe al comando del generale Ratko Mladić conquistarono la città. I militari olandesi del contingente Dutchbat, non solo non riuscirono a impedire il genocidio, ma diedero all’esercito serbo tutte le armi e le divise senza sparare un colpo. Il colonnello Karremans delle Nazioni Unite fu accusato in seguito di non aver adempiuto ai propri doveri, sebbene avesse chiesto invano supporto aereo da Aviano per colpire i carri armati serbi. Sotto gli occhi dei caschi blu si svolse il massacro: quasi 10.000 uomini e ragazzi furono separati subito dalle famiglie, giustiziati, smembrati e sepolti in fosse comuni. Migliaia di donne furono violentate in modo sistematico. Alcuni militari olandesi, tornati nei Paesi Bassi, si tolsero la vita dopo aver assistito agli orrori. Oggi, chi vive a Srebrenica, parla con difficoltà della tragedia, schiacciato dal peso della memoria. Attraversando la stretta valle, sembra di trovarsi in un cimitero a cielo aperto. Durante la Carovana della Pace abbiamo visitato il memoriale e il cimitero di Potočari, dove riposano oltre 8.700 civili. Prima della guerra convivevano in amicizia anche con i serbi, ma oggi la pace è difficile. La Bosnia ed Erzegovina è diventato uno Stato federale costituito da due entità politico-amministrative, la Federazione di Bosnia e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Questo ordinamento fortemente decentrato dovrebbe essere funzionale alla presenza di tre popoli costitutivi: la componente croata, quella bosgnacca (o bosniaca-mussulmana) e quella serba. Quello che hanno in comune le entità politiche è solo l’esercito, tutti gli altri ministeri sono doppi, ossia tripli e autonomi con tutto il caos che potreste immaginarvi. Negli ultimi dieci anni, la negazione del genocidio è ricomparsa e il peggio è che c’è un pubblico accademico che lavora attivamente per la negazione del crimine, avverte Hikmet Karcic, docente all’Università di Sarajevo. E mette in guardia, perché questa negazione ha lo scopo di cancellare completamente ogni responsabilità. E non solo, ma anche di non poter prevedere future distruzioni, futuri genocidi.
Ma è possibile la riconciliazione di fronte alle tensioni etniche e politiche del mondo? Abbiamo imparato qualcosa dalla guerra e dal genocidio? Ernst Bloch, uno dei pensatori tedeschi del dopoguerra, scrisse nel suo bel volume Principio speranza (Das Prinzip Hoffnung), che l’uomo vive tuttora nella ‘’preistoria’’ della creazione del mondo, di un mondo giusto, e gran parte della Genesi, che in greco significa nascita, creazione, e che fa parte dei libri che si trovano all’inizio della Bibbia, in origine doveva essere posta alla fine, dunque doveva far riferimento a qualcosa, che è ancora da divenire, di cui gli uomini dovrebbero essere responsabili.
Articolo originale in Italiano.